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Cell

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VOTO: 5.5

Il Nuovo Ordine

Come accaduto quasi per tutte le trasposizioni cinematografiche partorite da un’idea letteraria di Stephen King – nell’occasione peraltro ufficialmente accreditato come sceneggiatore insieme ad Adam Alleca, già autore dello script del non disprezzabile remake de L’ultima casa a sinistra (2009) – diviene quasi un esercizio sofistico separare il grano dalla gramigna, per dirla in termini agricoli. Non fa eccezione, ovviamente, anche Cell, film tratto dall’omonimo romanzo del Re dell’horror. Un progetto rimasticato da circa un decennio – e si vede – cullato prima da Eli Roth quindi finito nelle mani registiche non esattamente consapevoli di Tod Williams, conosciuto soprattutto per aver diretto il secondo capitolo della saga di Paranormal Activity. Nonostante le premesse non esaltanti, Cell avrebbe tranquillamente potuto aspirare a divenire un buon prodotto di genere, a maggior ragione quando nel cast si annoverano nomi come John Cusack (anche produttore esecutivo) e Samuel L. Jackson. Ma anche il survival movie “da guerriglia” richiede il rispetto delle proprie regole non scritte, risucchiando lo spettatore nel gorgo di una tensione che in Cell funziona troppo a corrente alternata, intervallato da superflue pause introspettive nonché illogici spiegoni del tutto fuori posto.
Eppure l’antefatto risulta(va) coinvolgente e di discreta efficacia. Mentre Clay Riddel (Cusack), autore di fumetti, attende di imbarcarsi all’aeroporto, un misterioso impulso trasmesso da ogni cellulare scatena un’ondata di violenza incontrollabile, quasi a risvegliare istinti primitivi troppo a lungo sopiti nel nome di una falsa civiltà. Pochi restano immuni, cercando di comprendere l’accaduto. La notevole intuizione kinghiana che possa essere proprio uno dei più usati – e abusati – medium tecnologici a condurre l’umanità verso il baratro poteva aprire teoricamente la strada a tutta una serie di vertigini che in potenza avrebbero potuto soddisfare gli appassionati in cerca di brividi estivi non a buon mercato. Condizionale obbligato. Perché al contrario il film di Williams si ingolfa quasi subito nella ricerca di ipotesi filosofiche “alte” – e conseguenti dialoghi quelli sì piuttosto raccapriccianti – sulla fine del mondo in atto ed altre amenità varie, con evoluzioni narrative a dir poco prevedibili e personaggi non solo di contorno descritti sommariamente. Cell soffre quindi di una sorta di conflitto interiore, tra la sua ambizione di confezionare un prodotto di genere capace di raccontare, dietro metafora, una deriva ormai senza ritorno – quella del progresso “capitalistico” da perseguire ad ogni costo – e la propria inclinazione visiva alla serie B, cioè quella di giocare a sporcarsi le mani con una violenza esibita giocoforza divenuta parte integrante della tematica affrontata. Da tale contraddizione non poteva che nascere un lungometraggio pesantemente squilibrato ed irrisolto, tuttavia con il coraggio di un finale decisamente più pessimistico rispetto a quello aperto dell’opera letteraria, perciò in grado di lasciare una sensazione di angoscia in chi guarda.
Il fatto dunque che siano gli alieni, o comunque un’entità superiore, ad utilizzare la tecnologia creata nell’arco di anni e molteplici sforzi dagli esseri umani per soggiogarli completamente, resta solo un’ipotesi, in Cell. Ciò che fa veramente paura, dai tempi del superclassico L’invasione degli ultracorpi (1956) nella prima versione di Don Siegel, è l’omologazione alla quale veniamo quotidianamente costretti da un uso sconsiderato dei vari ammennicoli da villaggio globale che abitiamo solo virtualmente. Aspetto, quest’ultimo, che Cell sottolinea solo in minima parte, decretando così il proprio (parziale) fallimento con le sue stesse mani. Non resta allora che aspettare fiduciosamente l’horror definitivo su tutto ciò che rende l’umanità di oggi tanto connessa in uno sterile flusso d’informazioni e conoscenze virtuali quanto prigioniera di un magma invisibile che la costringe a recitare parti già assegnate in partenza, chiusa nell’illusorio alveo della propria individualità.

Daniele De Angelis

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