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Captive State

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VOTO: 6.5

Ancora e sempre, Resistenza

Stati Uniti. Futuro distopico ma abbastanza prossimo. Economia a gonfie vele, tasso di disoccupazione pressoché inesistente e criminalità del tutto azzerata. Peccato si tratti solo di propaganda governativa, dato che il mondo ha, da quasi un decennio, subito un’invasione aliena tutt’altro che pacifica. L’ultimatum è stato chiaro: o vi sottomettete oppure verrete massacrati. La gran parte della massa, forze dell’ordine comprese, ha accettato il perentorio invito; come ovvio sussistono però alcune isolate sacche di resistenza. A partire da una Chicago devastata, eletta nel film a sineddoche dell’intero globo.
Captive State, questo il titolo del film oggetto della nostra disamina, possiede più di qualche freccia all’interno della propria faretra. In primo luogo bisogna dare atto al regista, il britannico Rupert Wyatt, di aver dimostrato la consueta abilità nel tenersi alla larga da innocui giocattoloni fracassoni alla Michael Bay, come in precedenza dimostrato con gli interessanti The Escapist (2008) e L’alba del pianeta delle scimmie (2011), peraltro uno dei più interessanti capitoli della saga. E anche Captive State non fa nulla per celare le proprie ambizioni. Oltre ad una evidente metafora socio-politica che vede gli alieni improntare una dittatura di stampo capitalistico mirata allo sfruttamento totale delle risorse terrestri al conseguente prezzo di aumentare il divario economico tra ricchi e poveri, è riscontrabile anche una confezione formale di tutto rispetto, contrassegnata dall’ottima fotografia di Alex Disenhof che ritrae una Chicago dall’aspetto livido di giorno e dalle tenebrose sequenze girate nottetempo prive di speranza. Il cinefilo ritrova luoghi ideali che, nel corso degli anni, hanno caratterizzato capolavori tipo Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971) di William Friedkin, ivi comprese pertinenti contaminazioni di genere con poliziesco e thriller. In aggiunta ad un cast di prim’ordine capitanato da un ambiguo John Goodman, perfetto in un ruolo che, qualche anno orsono, sarebbe stato di sicura pertinenza da parte di un certo Gene Hackman.
Ciò che invece convince meno di Captive State – oltre al fatto di mostrare da subito le fattezze degli alieni, simili a gigantesche blatte, smarrendo così qualsiasi suspense “simbolica” – è la mancata scelta tra un cinema dichiaratamente di serie B ad alto livello ed un’opera da culto autoriale, che purtroppo per gran parte poggia su una sceneggiatura piuttosto prevedibile. Uno script – opera dello stesso regista con la moglie Erica Beeney – che si appiattisce per quasi tutta la durata del film sugli stereotipi dei generi trattati, omettendo colpevolmente di fornire una sufficiente descrizione psicologica di personaggi – ci si riferisce ovviamente ai cosiddetti buoni, chi eroe e chi martire della resistenza – con i quali lo spettatore trova molta difficoltà ad entrare in empatia. Capita così che nel corso della visione subentri più di qualche momento di stasi, parzialmente riscattato da un twist finale non del tutto imprevedibile ma in grado comunque di chiudere in maniera credibile il cerchio di una narrazione non sempre perfettamente oliata. Limiti questi che se da un lato impediscono l’ascesa di Captive State nell’empireo dei film di culto, nondimeno gli garantiscono una posizione non secondaria in un’ipotetica classifica tra lungometraggi di genere che aspirano a mettere in mostra nitidi riflessi sulla situazione che stiamo vivendo oggigiorno nella realtà effettiva. Forse, quest’ultima, un tantino più preoccupante della classica frase di reazione dopo aver assistito ad una siffatta produzione: “E’ solamente un film“. Mica tanto, per corsi e ricorsi storici…

Daniele De Angelis

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