Verità incandescenti
Prima di addentrarci nei meandri di un’analisi critica più o meno esaustiva, da voi condivisa oppure no, è necessario fare chiarezza su che cosa la suddetta analisi si andrà a concentrare. Iter, questo, indispensabile vista la natura non propriamente convenzionale dell’opera messa sotto osservazione. Si perché quella scritta e diretta a quattro mani da Enzo Papetti e Roberto Minini Merot è un’opera che non può e non deve essere circoscritta e canalizzata in un dato genere o filone, tantomeno ricondotta a uno schema, a un linguaggio o a un modus operandi, precisi. Del resto, questo modo di fare e concepire la Settima Arte è un marchio di fabbrica di entrambi gli autori. Chi ne conosce i precedenti dietro la macchina da presa già lo saprà.
Calcolo infinitesimale, nelle sale con Mariposa Cinematografica a partire dal 16 giugno dopo le anteprime festivaliere a New York e a Taormina, “appartiene” per Dna creativo a quelle forme di ibridazione nelle quali vanno a convergere più fattori estetici, narrativi e artistici. Il tutto all’insegna della sperimentazione, della ricerca, della contaminazione senza soluzione di continuità, che genera a sua volta una fusione audiovisiva resa possibile da una modalità produttiva libera e indipendente. Questo per dire che un approccio corretto alla materia drammaturgica e stilistica è, più che mai nel caso di un film come Calcolo infinitesimale, importantissimo, poiché costituisce la chiave d’accesso per entrare nella genesi, nelle intenzioni e nello sviluppo, del progetto. In tal senso, il titolo del film è già di per sé una dichiarazione d’intenti lanciata alla platea di turno. Una condicio sine qua non dalla quale non si può sfuggire nel momento in cui si decide di confrontarsi con un “oggetto” a tutti gli effetti indeterminato e non identificabile come questo. Se ciò dovesse per qualche motivo venire meno, allora il castello di carte eretto da Papetti e Minini Merot crollerebbe immediatamente sotto gli occhi del fruitore. In tal senso, torna alla mente il cinema di Gaudino o Manuli.
Siamo in quel di Stromboli. Roberto Pistis (Luca Lionello) si è isolato dal mondo. Dopo il grande successo e la fama ottenuti in gioventù con il suo primo romanzo e malgrado il suo libro continui ad essere letto e acclamato, di lui, da tempo, non se ne sa più nulla. Valeria Hostis (Stefania Rocca) è una giornalista che scrive per le maggiori testate internazionali, decisa a mettersi sulle sue tracce. Lo scova e riesce a prendere appuntamento per quella che ritiene sarà l’intervista dell’anno, ma niente ovviamente è come appare, perché dietro si cela un “magma incandescente” di accadimenti che, ovviamente, non vi spoileriamo. Ciò che possiamo anticiparvi è che il film, dopo una partenza in stile The End of the Tour, cambia continuamente pelle come un camaleonte, giocando con le molteplici possibilità offerte dal genere in un alternarsi di messe in scena, di identità reali o solo presunte, di verità e inganno. I registi stendono un tappeto narrativo lungo il quale disseminano strada facendo una serie di coup de théâtre, alcuni dei quali inaspettati e altri piuttosto prevedibili. Si tenta, dunque, di mescolare continuamente le carte per impedire allo spettatore di impossessarsi del gioco dell’avversario, in questo caso dei due protagonisti. Sul fronte mistery, quindi, l’effetto sorpresa risulta altalenante e non sempre efficace.
Tale effetto è una delle tante costole che convergono nella colonna vertebrale dello script, la cui spina dorsale è rappresentata dalla commedia e dalle sue diverse sfumature, compresa quella surreale (giganteschi pesci svolazzanti) e grottesca (inserti di animazione). L’intenzione è quella di sperimentare senza allontanare lo spettatore con pindariche elucubrazioni pseudo-autoriali, cercando costantemente di incontrare il favore di colui che guarda. Ciò passa attraverso un canovaccio volutamente strampalato, pervaso dall’ironia e dalla leggerezza, ma anche da influenze che vengono dal passato (in particolare dalla slapstick comedy). In una dimensione di anti-convenzionalità e di scoperta. Per cui, non ci si annoia, ma il cocktail di ingredienti che sta alla base del progetto poche volte soddisfa a pieno, causa di una serie di digressioni e stratificazioni narrative (il film lavora su diversi piani reali e immaginifici) che creano degli stalli nel racconto, frenandone bruscamente la scorrevolezza della fruizione. La mancanza di un’unione tra le suddette stratificazioni provoca anche un cortocircuito drammaturgico, che investe direttamente il disegno plurimo dei protagonisti, interpretati rispettivamente – tra alti e bassi – da Luca Lionello e Stefania Rocca, chiamati a sdoppiarsi e a triplicarsi a seconda dei casi, assumendo altre vesti.
Ciò che resta, sono le musiche di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura, ma soprattutto gli incantevoli e magnetici paesaggi naturali dell’isola di Stromboli, prontamente restituiti sullo schermo dai due cineasti. Peccato che non sia sufficiente a tenere a galla un’opera che sosteniamo per il coraggio dimostrato nel non voler essere convenzionale, ma della quale bocciamo categoricamente il montaggio e certe sue soluzioni visive (velocizzazioni e soprattutto l’uso posticcio delle tendine usate come punteggiatura di transizione), che mettono in mostra tutta una serie di limiti tecnici (compresi quelli dell’audio).
Francesco Del Grosso