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The End of the Tour

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VOTO: 8

Rapsodia a due voci

Se il Dio del Cinema vuole, esistono ancora opere toccate da una grazia imperscrutabile. The End of the Tour, presentato nella Selezione Ufficiale della Festa del Cinema di Roma 2015 e speriamo prima o poi nelle nostre sale, non è altro che la somma di molte generosità. Una regia – di James Ponsoldt, fortemente candidato, già dopo The Spectacular Now, a divenire uno dei principali cantori indie di quelle che ancora oggi dovrebbero chiamarsi relazioni umane – che non inserisce un’inquadratura di troppo e si mantiene alla debita distanza dei due personaggi principali per poterli osservare e studiare nel miglior modo possibile. Senz’altro coadiuvato nell’impresa da una sceneggiatura – scritta da Donald Margulies tratta dal libro di David Lipsky “Altough of Course You End Up and Becoming Yourself” – efficacissima nel donare un tono di pacata naturalezza ad un incontro che si rivelerà di svolta per entrambi i personaggi del film. I quali sono, arriviamo al punto, proprio il redattore della rivista Rolling Stone David Lipsky ed il celebre scrittore David Foster Wallace.
Siamo nel 1996, Stati Uniti. Anche se la vicenda narrativa del film prende le mosse nel 2008, data del suicidio di Wallace. Lipsky ottiene dalla rivista il permesso di seguire la fine del tour di presentazione dell’ultimo romanzo partorito da Wallace, “Infinite Jest”. Cinque giorni in cui Ponsoldt riesce magnificamente a raccontare la nascita di un rapporto d’amicizia, con tutto il bagaglio di scoperte di affinità, sorprendenti complicità, malintesi che feriscono e sottintesi da interpretare; con tutto ciò che ne consegue. The End of the Tour diventa perciò, fotogramma dopo fotogramma, secondo dopo secondo, un film di persone. Quante volte opere cinematografiche su uomini e donne realmente esistiti lasciano una costante e fastidiosa impressione di costruzione a tavolino? Dando i giusti meriti alle essenziali interpretazioni del sempre bravissimo Jesse Eisenberg (Lipsky) e della rivelazione, al di fuori dei cliché brillanti a cui ci aveva abituato, Jason Segel (Wallace), è tutto l’insieme di The End of the Tour a far dimenticare del processo di ricostruzione fiction per proiettare lo spettatore in un’altra dimensione. Quella, appunto, della complessità di sentimenti vissuti direttamente faccia a faccia, senza il filtro della tecnologia odierna. Come infatti specifica Wallace in un momento chiave del film, “l’umanità si sta avviando ad un futuro dove i rapporti personali e interpersonali si gestiranno comodamente dalla schermo di un pc“. Era il 1996. Un ventennio dopo tale profezia non può che dirsi compiuta. E Wallace, nei suoi testi, aveva preconizzato questo sviluppo. Pagandone probabilmente in prima persona gli effetti collaterali.
Non solo per tale ragione The End of the Tour può considerarsi uno splendido esempio di fantascienza retrodatata in cui la parola, attraverso i dialoghi continui e ricercati tra la strana coppia, diviene al contempo comunicazione e affabulazione, strumento di verità e inganno. Raggiungendo dunque l’essenza della questione: se, nel serrato confronto tra Lipsky e Wallace, nessuno è in grado di definire con approssimativo margine di certezza chi è se stesso, come può affermare di conoscere l’altro? La caratterizzazione di Wallace, in questo senso, è illuminante per quanto la sua figura rimane densa di mistero, contraddittoria, fragile. La sensazione che rimane dentro è quella di un’intelligenza troppo sviluppata e sensibile per accettare uno stato delle cose in progressivo deterioramento. Mentre Lipsky, dal canto suo, si trova quasi “costretto” ad accettare la propria inferiorità artistica rispetto al talento puro di Wallace.
Al momento del commiato, dopo i cinque giorni, densi e turbolenti, trascorsi insieme, Lipsky tenta un abbraccio – in platea da tutti auspicato – che Wallace rifiuta in favore di una semplice stretta di mano. Perché le ferite, anche se immaginarie, non possono purtroppo essere chiuse se la mente non lo permette. Ecco quindi che The End of the Tour – che qualcuno liquiderà frettolosamente come riuscito buddy movie – diventa una discesa senza bombola d’ossigeno in abissi profondi e sconosciuti: i misteri per cui scatta la simpatia tra persone di estrazione differente nonché il difficilissimo processo di solidificazione della stessa in qualcosa di più grande ancora. Amicizia o amore, non fa molta differenza. Rimane sempre un Everest da scalare, se si preferisce la metafora montanara.
The End of the Tour è puro cinema umanista della miglior specie: lascia aperto il confine del dubbio e della riflessione, ma sottolinea la magia di momenti sempre troppo brevi per durare quanto dovrebbero. Cioè in eterno. Ma la razza umana, imperfetta, vile e talvolta passionale, forse non lo merita. Può solo cercare di imparare dai propri errori e ogni tanto ricevere una carezza. Magari a sorpresa, da chi non la si aspetta. The End of the Tour è un’opera preziosa riassumibile in un gesto simile; ma con una lacrima a scorrere giù quando la mano, prima o poi, si allontanerà.

Daniele De Angelis

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