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Caccia al tesoro

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VOTO: 4.5

Senti chi parla

Il titolo del film prima, l’animazione dei titoli di testa poi, hanno fatto inizialmente ben sperare in un (im)probabile cambio di rotta da parte dei fratelli Vanzina, i quali, ambientando Caccia al tesoro, loro ultimo lavoro (sceneggiato, come di consueto, da Enrico e Carlo e diretto dallo stesso Carlo), a Napoli, hanno già dato al tutto un taglio diverso rispetto agli ultimi lungometraggi da loro realizzati. E, di fatto, questo loro ultimo prodotto qualcosa di diverso ce l’ha eccome. Non solo per quanto riguarda la forma, ma anche (per fortuna e purtroppo, a seconda delle situazioni) per quanto riguarda la stessa sostanza. E così, in una Napoli dei giorni nostri, affascinante, patria dell’arte e della bellezza, ma anche teatro di violenze, prende il via la storia di Domenico Greco, attore teatrale senza successo, il quale, al fine di riuscire a far operare il nipotino malato di cuore, organizza, insieme alla cognata (madre del ragazzo), a Ferdinando (uno sconosciuto che per sbaglio è venuto a conoscenza del suo piano) ed a una coppia di sgangherati ladri romani il furto della preziosa mitra della statua di San Gennaro. L’uomo, a causa di un equivoco, è convinto che sia stato lo stesso San Gennaro a parlargli – mentre era intento a pregare insieme alla cognata – permettendogli di prendere alcune pietre preziose dalla sua stessa mitra. Al via, dunque, una serie di disavventure tra Napoli, Torino e addirittura Cannes. Ad unirsi alla banda ci sarà anche Gennarino, figlio di Ferdinando, affidato alla madre in seguito alla separazione dei genitori.
Ora, con delle premesse del genere, gli ingredienti per una gustosa commedia ricca di gag e trovate interessanti ci sono tutte. Bisognerebbe soltanto avere il coraggio di osare, di dar vita a qualcosa di diverso, evitando il solito facile umorismo basato, spesso e volentieri, sulla volgarità e, soprattutto, stando alla larga da pericolosi luoghi comuni, come spesso avviene in simili contesti.
E, per quanto riguarda i luoghi comuni, bisogna dire che questa volta i fratelli Vanzina non si sono lasciati fregare. È soprattutto sull’azione e sull’equivoco che questa loro commedia vuole puntare. Il problema, però, resta sempre lo stesso: una gag dopo l’altra non riesce a creare quel minimo di tensione necessario ad una storia del genere e, soprattutto, tutto il lavoro non fa che risultare pericolosamente prevedibile. Ma, d’altronde, si sa, questo è sempre stato un marchio di fabbrica dei due fratelli. Elementi con i quali – a volte anche in modo talmente ingenuo da fare quasi tenerezza – si sono spesso divertiti a giocare. E la cosa in sé andrebbe anche bene, visto che, nel momento in cui ci si accinge ad assistere ad una loro proiezione si sa quasi sempre cosa sta per esserci presentato. Il vero problema di un lungometraggio come Caccia al tesoro, in realtà, è un altro. Al di là del finale scontato e fortemente buonista (cosa, anche questa, che poteva essere facilmente prevista), ciò che maggiormente disturba è proprio il messaggio che tramite le parole dello stesso protagonista ci viene trasmesso: per un figlio tutto è lecito, anche rubare o commettere atti criminali. Ed ecco che, inevitabilmente, fanno il loro ingresso in scena pericolosi camorristi improvvisamente “redenti”, in quanto commossi dalla storia di Domenico, amori improbabili, cospicue eredità ed altrettante facili e banali soluzioni.
In poche parole, man mano che ci si avvicina al finale, tutto il film va pericolosamente in caduta libera, dando quasi l’impressione che persino chi lo ha realizzato non vedeva l’ora di poter leggere la parola fine nei titoli di coda. Nemmeno le suggestive panoramiche di Napoli dall’alto sulle note di “Napul’è” di Pino Daniele, in chiusura di tutto, sono sufficienti a salvare, in qualche modo, il lavoro. Così come non sono sufficienti i numerosi rimandi al teatro ed al cinema presenti in sceneggiatura. Ma tant’è. D’altronde, nessuno si aspettava di vedere un film rivoluzionario né tantomeno il lungometraggio dell’anno. E gli stessi fratelli Vanzina, così spesso attaccati da pubblico e critica, sono in realtà due personalità alle quali, nel bene o nel male, siamo anche affezionati, così come i loro lavori sono appuntamenti annuali ai quali siamo ormai da tempo abituati. Proprio come le feste comandate. Una delle poche certezze in un’Italia dei giorni nostri, in cui di certezze sembra essercene davvero poche.

Marina Pavido

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