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Bright

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VOTO: 6.5

È una sporca faccenda agente Ward

Ci piace pensare che il razzismo sia oramai un retaggio del passato. Sempre più spesso, però, vediamo testimonianze di come questo non sia affatto vero. Il regista David Ayer, conosciuto al grande pubblico soprattutto per Suicide Squad (2016), fa di questo assunto il cuore narrativo del suo film costruendovi sopra un thriller poliziesco, genere da lui più volte visitato con successo, all’interno di una cornice fantasy, genere che ben si presta a funzionare come metafora del presente.
In questo mondo dove diversi specie convivono piuttosto male e dove i moderni Stati Uniti ricordano molto il Sudafrica dell’apartheid, Ayer organizza una storia serrata ed avvincente. In una Los Angeles oscura e tentacolare, nella quale legge e ordine sembrano essere concetti puramente teorici, con i due protagonisti che si trovano coinvolti in una storia molto più grande di loro.
La struttura del film non riserva particolari sorprese e sotto-testi. Ci troviamo davanti ad una solida opera di genere che mantiene e utilizza i topoi tipici pur calandoli in una cornice fantasy che sembra offrire un habitus nuovo con nuove possibilità di sviluppo. Di solito l’elemento che dona dinamicità alla trama, noto come McGuffin, in una storia di questo tipo è spesso legato ad una “prova”, un oggetto che possa dimostrare l’innocenza o la colpevolezza di un personaggio. Qui il McGuffin è legato all’elemento fantastico della trama, è esso che permette di sviluppare la storia e di farla progredire. Ciò introduce anche ad un altro elemento interessante del film. Il concetto di magia come “potere”. Attraverso la magia si ottiene e si maneggia il potere di fare ed ottenere tutto ciò che si vuole. Un concetto già ravvisabile in quell’opera fondamentale che è “Il Signore degli Anelli” (The Lord of the Rings) di J. R. R. Tolkien. Intorno alla ricerca e bramosia di questo potere si svolge tutta la storia, con i diversi personaggi che, per un motivo o per l’altro, convergono verso questo centro narrativo.
La dimestichezza di Ayer con il thriller poliziesco, ricordiamo che nella sua filmografia compaiono titoli come Training Day (2001) di Antoine Fuqua, in qualità di sceneggiatore, e, come regista, Harsh Times – I giorni dell’odio (2005) e End of Watch – Tolleranza zero (2012), di riuscire ad fondere con successo il thriller ed il fantasy creando così un mondo coerente che riesce ad avvincere lo spettatore evitando di sembrare posticcio e scontato nel suo essere opera di genere.
Se la regia di Ayer, unitamente alla sceneggiatura di Max Landis, è in grado di creare un congegno ben funzionante è difficile negare come una grande importanza rivesta nel film la presenza di Will Smith, tornato a lavorare con Ayer dopo Suicide Squad. La pellicola si regge anche sul suo carisma e sulla sua presenza scenica. Il suo Daryl Ward è un antieroe riluttante che, coinvolto in un gioco più grande di lui, si trova quasi obbligato a d assumere il ruolo di eroe positivo ed a schierarsi affinché il male non prevalga. Davvero buon contraltare all’interpretazione di Smith è quella della villain Noomi Rapace capace di dare forma ad un personaggio gelido ed inquietante. Netflix sembra già avere un sequel in cantiere, prepariamoci dunque a vedere di nuovo in azione gli agenti Ward e Jacoby.

Luca Bovio

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