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Brief History of a Family

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VOTO: 8

Come un figlio

Dopo un fortunato percorso nel circuito festivaliero internazionale iniziato lo scorso gennaio al Sundance e proseguito nei mesi successivi in altre prestigiose vetrine dislocate alle diverse latitudini come la Berlinale, Sydney, Karlovy Vary, Vancouver, Valladolid e Singapore, per Brief History of a Family è giunto il momento di fare tappa anche in Italia, laddove in attesa dell’uscita nelle sale nostrane con Movies Inspired primavera prossima ha fatto già parlare di sé. Lo ha fatto vincendo in quel di Milano il Black Panther Award al 34º Noir in Festival, per poi conquistare la giovanissima platea torinese del 25° Sottodiciotto Film Festival & Campus. Riconoscimenti e consensi, questi, meritati per un’opera prima firmata da un regista da tenere sottocchio e del quale sentiremo sicuramente parlare da qui ai prossimi anni. Si tratta di Lin Jianjie, giovane cineasta cinese con una laurea in bio-informatica alle spalle e un promettente futuro nella Settima Arte che lo attende. La maturità e la sicurezza dimostrate sia in fase di scrittura che in quella di messa in quadro, entrambe figlie di un mix di istinto e talento fuori dalla norma, sono le solide fondamenta su e attraverso le quali l’autore costruisce l’impianto narrativo e l’architettura visiva del film.
La pellicola ci porta al seguito di Wei, un ragazzo estroverso di famiglia benestante, e del suo compagno di classe Shuo, un tipo tranquillo e perspicace. Dopo un incidente a scuola, i due si sentono attratti da una misteriosa energia che li lega intimamente. Wei invita a casa l’amico. Il padre è un biologo, la madre un’ex assistente di volo. Quando apprendono che Shuo proviene da un ambiente difficile, lo accolgono con affetto, invitandolo a passare più tempo nella loro dimora. Integrandosi lentamente nella vita di questa famiglia, Shuo scopre che dietro un’esistenza apparentemente agiata, si celano segreti, aspettative insoddisfatte, desideri non sopiti. Un tragico incidente complica ulteriormente la situazione, mettendo risalto le ferite del passato e le ansie del presente.
Come si evince dalla lettura della sinossi, Lin Jianjie ha chiaramente guardato a quella che è stata la sua formazione accademica e sopratutto alla situazione politica del suo Paese, la Cina post “figlio unico”, per dare forma e sostanza una trama che si sviluppa intorno a un valzer di segreti inconfessati, aspettative deluse ed emozioni trascurate. In essa, nei personaggi che la animano (vedi il padre di Wei biologo) e nel modo in cui il tutto viene portato sullo schermo (l’utilizzo del mascherino circolare a simulare la lente di un microscopio) ci sono infatti una serie di riferimenti al suo passato e alla sua idea di cinema, che si mescolano senza soluzione di continuità a un dramma carico di tensione e dal finale inaspettato. Esiste un numero incalcolabile di film che hanno messo al centro del plot le dinamiche domestiche, idilliache o malate, motivo per cui era complicatissimo trovare qualcosa di originale o quantomeno interessante in grado di dare un senso all’operazione. Il regista cinese lo ha trovato nel punto di vista circoscritto e nell’approccio quasi scientifico al soggetto analizzato. Il tal senso, Brief History of a Family esamina una famiglia sia come una cellula vivente che subisce cambiamenti a più livelli, sia come una cellula della nostra società in evoluzione che, inevitabilmente, modella la psiche e i sentimenti dei suoi membri. Quando l’apparente armonia dei genitori e di Wei è sconvolta da Shuo, la famiglia vede la possibilità di stabilire una nuova stabilità. Nel farlo, le correnti sotterranee che agitano la loro relazione vengono a galla; i bisogni collettivi e individuali si scontrano; i confini dello spazio fisico e delle emozioni si confondono.
Tutto questo “magma” incandescente si riversa sullo schermo attraverso le performance attoriali di tutti i suoi interpreti (su tutte quelle del giovane Sun Xilun nei panni di Shuo) e con la tensione latente di uno psico-thriller destinato a implodere nel finale come una pentola a pressione, giocato sulle atmosfere ansiogene e inquietanti, sui silenzi e sulla confezione glaciale, in primis fotografica. Pochi elementi, questi, ma ricchi di quella carica mistery che un film e una storia che nelle intenzioni non volevano essere dichiaratamente di genere poiché puntavano a uno spaccato sociale, ma che poi lo sono diventate di riflesso quando nella scrittura stratificata e nella sua messa in quadro chirurgica si sono manifestati nell’autore il bisogno e la volontà forti di scavare nella mente dei personaggi e nelle loro relazioni ambigue, per creare un tono misteriosamente seducente e per invitare il pubblico a guardare oltre ciò che vede, e ad ascoltare oltre ciò che sente.

Francesco Del Grosso

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