3 – Il cinema “contaminato”
Quello de La mosca (The Fly, 1986) potrebbe sembrare a prima vista il gran ritorno di Cronenberg ai fasti dell’horror degli inizi di carriera, quello capace di indagare, anche filosoficamente, sui mutamenti fisici e psichici dell’essere umano in un tripudio di effetti speciali il più delle volte orripilanti ad uno sguardo spettatoriale. E senz’altro la storia dello scienziato Seth Brundle, geniale inventore di una forma embrionale di teletrasporto che finisce accidentalmente per fondersi con una mosca, in larga parte lo è. Ma The Fly è anche – e forse soprattutto – la classica, immortale storia di un amore contrastato, da sempre elemento cardine di qualsiasi melodramma che si rispetti. Con l’introduzione estrema e decisiva della contaminazione “kafkiana” sotto forma di metamorfosi da uomo a uomo-insetto, non tralasciando ovviamente, com’è tipico di Cronenberg, che la macchina da presa si esimi dal mostrare l’angoscia ed il ribrezzo scaturiti da una tale, incredibile, situazione limite. Il cinema dell’autore canadese comincia ad assumere sembianze sempre maggiormente ibride, con difficoltà incasellabili dalla critica. Ed infatti La mosca riesce nell’impresa di soddisfare pienamente sia gli appassionati del gore più estremo – il quale peraltro non ricomparirà più, perlomeno in tali forme, nella filmografia del cineasta – che soprattutto gli ammiratori del cinema di qualità in senso assoluto: perché un horror così composito e ricco di sottogeneri al giorno d’oggi, con il cinema commerciale inesorabilmente prigioniero di formule predigerite, sarebbe impossibile da girare. Lui (lo scienziato), lei (la giornalista d’assalto), l’altro (il direttore della rivista per cui lei lavora, con il quale ha avuto una relazione) e la metamorfosi, la storia di un uomo che aspirava ad una statura superiore e che è finito come uno dei più piccoli tra gli insetti. Nell’abisso in cui si precipita venendo coinvolti dalla visione de La mosca c’è l’approfondimento umanistico, il dramma interiore, la messa in scena di quotidiane dinamiche sentimentali che improvvisamente – per un caso fortuito, per una banale disattenzione dovuta ad un umano impeto di gelosia – divengono straordinarie. Così tanto da far paura. Sarà mica che l’uomo si trasforma in mosca anche per la sua cronica impossibilità di scindere amore e carnalità?
Per Cronenberg e il suo cinema si aprono nuovi abissi da esplorare; ed il primo riguarderà l’insondabilità della simbiosi fisica e psicologica più assoluta, esplorata attraverso la storia di due gemelli ginecologi intitolata Inseparabili (Dead Ringers, 1988). Nella pellicola che al tempo fu considerata – dalla critica meno attenta – come l’autentica consacrazione autoriale di Cronenberg, per la prima volta (a parte l’anomalia di Veloci di mestiere, pellicola che peraltro scaturisce da una ben definita passione/ossessione del regista, come vedremo in seguito…) non c’è orrore mostrato, a parte una scioccante sequenza onirica. La suspense e l’angoscia nascono “semplicemente” dall’osservazione, da uno sguardo capace di penetrare in profondità nei meandri dell’essenza umana. Dei due gemelli Beverly e Elliot Mantle (entrambi ovviamente interpretati dal medesimo attore, uno straordinario Jeremy Irons) lo spettatore viene a conoscenza di qualsiasi aspetto caratteriale, anche quello più recondito inerente alla sfera sessuale; ma soprattutto affettivo, perché Cronenberg riesce a descrivere magistralmente il loro legame pressoché assoluto, rendendo simbolicamente chi guarda il suo film una sorta di voyeur attivo, chiamato a scavare insieme a lui nell’esplorazione di un rapporto senza limiti. Inseparabili dunque assume presto le sembianze di un saggio filosofico, al cui affascinante puzzle mancano dei tasselli che solo lo spettatore, attraverso la propria sensibilità, può trovare, ponendosi determinate domande: l’amore totalizzante porta inevitabilmente alla distruzione? E fino a che punto riesce a spingersi la conoscenza reciproca, anche tra consanguinei? Ancora una volta sarà una donna a distruggere i precari equilibri…
Inseparabili risulta davvero, a posteriori, un’opera spartiacque nella filmografia cronenberghiana. Un po’ come la scoperta dell’esistenza di un altro universo per un ricercatore scientifico; fatto che inevitabilmente sposterà di nuovo in avanti i confini del conosciuto. E infatti il passo successivo compiuto da Cronenberg nella sua carriera di autore cinematografico sarà la trasposizione “impossibile” del celebre romanzo di William S. Burroughs Il pasto nudo. Un’altra sfida senza possibilità di alcun ritorno indietro.
Il pasto nudo (The Naked Lunch, 1991) è un road movie psico-esistenziale che si snoda attraverso luoghi esotici, un percorso di formazione con passaggi ripetuti e continui dalla vita alla morte, passando per la sessualità e la tossicodipendenza. Una diegesi che si svolge però tutta all’interno di una mente, quella del protagonista Bill Lee, autentico alter-ego dello scrittore William Burroughs nonché, per estensione, dello stesso Cronenberg (palesemente affascinato dal contesto e risaputo grande fan del romanzo e dello scrittore) e di chiunque guardi il film con occhio lucidamente allucinato. Intraducibile per immagini poiché frammentario e pressoché univoco nel punto di vista, Il pasto nudo diventa nelle mani di Cronenberg una sorta di inarrestabile discesa labirintica in una dimensione parallela, fantastica ma molto verosimile allo stesso tempo, dove ancora una volta emergono con sbalorditiva chiarezza quelle pulsioni auto-distruttive comuni a moltissimi personaggi del cinema passato dell’autore dell’Ontario. Un breviario sulla natura umana, fino appunto alla sua essenza, che si alimenta attraverso una messa in scena da cinema classico e atemporale, omaggio genialmente rielaborato in chiave psicologica ai vecchi noir del tempo che (non) fu. Un tempo fisico che pare cristallizzarsi in una infinita coazione a ripetere nella mente del personaggio principale ed invece scorre inesorabile, nonostante i tentativi di bloccarlo. Ne Il pasto nudo c’è la rappresentazione per immagini – astratta, se si vuole; ma più reale del vero – dell’Uomo e dell’ansia che lo divora. Quella di esistere e di lasciare una traccia. A qualsiasi costo, prima della fine. Un concetto di senso della morte che conoscerà la sua sublimazione in una delle pellicole maggiormente “sentite” da Cronenberg, il successivo M. Butterfly.
Tutta l’attrazione di David Cronenberg per le regole insondabili che “disciplinano” la pulsione amorosa, con conseguente deriva artistica sotto forma di melodramma dalle tinte accese, si esplicitano in una delle opere (liriche?) più passionali – e cerebrali – del regista che ha reso la sua originalissima forma di entomologia umana pura poetica cinematografica. Raccontando e romanzando la vicenda del diplomatico francese René Gallimard (un altro capitolo del fruttuoso sodalizio con Jeremy Irons) perdutamente innamoratosi di una/un cantante d’opera nella Cina degli anni sessanta, Cronenberg arriva al punto di non ritorno del sentimento, quello che azzera qualsiasi coordinata convenzionale del corpo materiale, ivi compresa quella sessuale, per raggiungere l’imperscrutabile essenza dello stesso, in una vorticosa discesa nella “follia” della passione che conoscerà i propri momenti di estatica meraviglia ma sarà destinata, ancora una volta, a concludersi nell’auto-distruzione. E non perché Gallimard finisce – nella diegesi – con l’amare perdutamente una donna che in realtà è sia un uomo che una spia, a cui rivela degli importanti segreti venendo condannato per alto tradimento; ma per il raggiungimento della consapevolezza che il sentimento assoluto – e ricambiato – non esiste. Nella voluta e meravigliosamente poetica confusione di ruoli sessuali che quasi si respira nell’atmosfera che permea M. Butterfly (id, 1993), la passionalità, secondo Cronenberg, non conosce confini a causa della sua inevitabile “cecità” simbolica: Gallimard non vede che l’amata è un uomo perché si è costruito all’interno della sua mente e del suo cuore il proprio personale feticcio d’amore. Inarrivabile, e perciò intoccabile nell’illusione che rappresenta e rappresenterà in futuro. E l’inevitabile distacco non potrà che portare al suicidio inteso come fine delle sofferenze sentimentali, in un omaggio alla Madame Butterfly pucciniana dove nell’epilogo era però il personaggio femminile a togliersi la vita. Ulteriore dimostrazione di come, nel cinema di Cronenberg, il concetto stesso di sessualità allo stadio puro – quando da lui affrontato – non possa essere altro che estremamente aleatorio e cangiante. E tuttavia sempre irresistibilmente attratto, sia nell’espressione più puramente fisica che in quella morale, dal baratro della fine. Impossibile dunque non vedere il film successivo, Crash, come sorta di variazione sul tema di un discorso che si ripete ad oltranza in quasi tutto il cinema di Cronenberg, sospeso tra l’impossibilità della conoscenza razionale e quella, altrettanto complicata, della passione assoluta.
Tratto dal romanzo omonimo di James Graham Ballard, Crash (id, 1996) è un’opera di rilevanza assoluta nella filmografia cronenberghiana, se non altro perché riunisce in unica pellicola alcune delle tematiche che sono andate via via costituendo il corpus della propria poetica autoriale: le metamorfosi del corpo, l’attrazione verso il piacere fisico, nonché il rischio incombente della morte visto come tappa essenziale per moltiplicare tale godimento. In più c’è la velocità delle automobili – nello specifico osservate come possibile fonte di dolore (il titolo si riferisce proprio alla dinamica dell’incidente stradale…) e conseguentemente di piacere, in una fusione inscindibile per il gruppo dei personaggi del film – e la più volte confessata passione di Cronenberg che torna a far capolino nel suo cinema a distanza di ben diciassette anni dall’ottimo Veloci di mestiere. Se quest’ultimo possedeva però un taglio quasi realistico nel mettere a fuoco le dinamiche delle competizioni automobilistiche marginali nel nordamerica e soprattutto ciò che si muove dietro le quinte di tale mondo, Cronenberg conferisce a Crash, seguendo il tenore del romanzo, un’aura pressoché metafisica, assieme surreale ed iperrealistica. Immerso in un’atmosfera plumbea, magistralmente resa dal fido direttore della fotografia Peter Suschitzky che illumina una Toronto descritta similarmente ad una natura morta, Crash annulla di slancio ogni pensiero convenzionale sull’idea di piacere sessuale. Pulsioni di morte e ferite come orifizi vaginali. Cicatrici che raccontano – unico mezzo possibile – storie esistenziali di individui che vivono obbedendo unicamente ai propri istinti “culturali”. Il Mito? James Dean, colui che ha raggiunto la fine in un terribile incidente automobilistico nel fulgore degli anni, presentandosi al fatale e quintessenziale appuntamento nel massimo splendore possibile. Il feticismo dell’icona scomparsa. Marilyn Monroe in macchina a simulare uno schianto da orgasmo. Uno scandalo programmato e ragionato, quindi? Piuttosto una lucida analisi della follia più istintuale che alberga in ogni essere umano, disposto a tutto in nome del piacere. Una nuova parvenza di (in)civiltà possibile? Forse. Ma anche una nuova forma di solidarietà capace di aggregare gli accoliti di quella che sembra una vera e propria setta. La quale vive e si alimenta in mezzo ad una società che potrebbe essere la nostra, mentre le auto estranee e lontane sfrecciano nelle superstrade cittadine nordamericane al pari di quelle delle italiche strade trafficate. “Forse la prossima volta toccherà a te…” dice James Spader (nel film James Ballard, a sottolineare una “certa” contiguità simbolica tra realtà e finzione artistica) a sua moglie Deborah Kara Unger nella finzione. Riuscirai cioè a morire immersa in un piacere solo in apparenza masochistico. Il massimo a cui l’infelice “homo cronenberghiano” possa aspirare. E l’amore (il melodramma) ritorna a far capolino, nel cinema di Cronenberg, attraverso le forme più sorprendenti; come in un gioco eterno per adulti mai cresciuti…
A proposito di adulti/bambini che giocano: l’opera seguente eXistenZ (id, 1999) – scritto con questa grafia per sottolineare in maiuscolo l’incognita della vita (X, appunto) e la certezza della fine (Z) – è un lungometraggio che verte proprio sulla perdita di orientamento tra realtà effettiva e realtà virtuale. In un futuro indefinito gli esseri umani si fanno installare una bio-porta per provare i brividi di un gioco dalla incredibile verosimiglianza. Ma la domanda pregnante che pone eXistenZ riguarda proprio il concetto stesso, assieme etico ed estetico, di illusione. L’essere umano raccontato nel film è essenzialmente passivo; attraverso continui ribaltamenti di prospettiva Cronenberg getta personaggi e spettatori in un Caos supremo sempre più sofisticato e complesso, sino ad arrivare al punto di non ritorno della impossibilità di distinzione tra troppe dimensioni parallele. Il personaggio principale Allegra Geller è davvero la più famosa designer di giochi interattivi colpita da una sorta di fatwa (l’ispiratrice “indiretta” del film – per ammissione di Cronenberg – è stata la vicenda reale dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie) oppure è il suo esatto contrario, la “resistente” che combatte con ogni sua forza il regime video-ludico? Chiaro che eXistenZ possa essere interpretato come una sorta di aggiornamento – se possibile ancora più pessimistico – di Videodrome: lì c’era la televisione a soggiogare e manipolare le menti; qui il condizionamento è già entrato direttamente nel corpo dei protagonisti, portando il discorso alle conseguenze più estreme e polverizzando qualsiasi residua certezza. eXistenZ è uno dei pochi film di Cronenberg in cui il sentimento o comunque il suo simulacro non trova affatto posto; si tratta piuttosto di un’opera definitiva – e come sempre filosofica – su un’umanità ormai precipitata in un abisso di atarassia, che rifiuta le emozioni reali per rifugiarsi in quelle, teoricamente molto più avvincenti, virtuali. Ma se cade qualsiasi barriera tra i due livelli, alla fine che differenza c’è? Nessuna, ci suggerisce Cronenberg. E questo e ciò che davvero genera timore in un’opera tanto definitiva da lasciare ormai aperta – nell’ambito della filmografia cronenberghiana – solo la porta dell’esplorazione di quello che si cela dietro una mente disturbata. Ed infatti Spider (id, 2002), opera diretta per certi versi su commissione – il progetto parte dall’attore protagonista Ralph Fiennes – non fa altro che aggiungere un ulteriore tassello mancante alla poetica dell’autore canadese.
Spider è un film profondamente sperimentale, pur nella propria cornice abbastanza facilmente decifrabile. C’è un uomo con radicati ed insormontabili problemi mentale e nel film viene rappresentata la sua visione del mondo, intrecciata a flashback della sua infanzia e adolescenza che tentano di capire il motivo per cui un essere umano possa così brutalmente deviare dai binari della normalità o pseudo tale. Tutto così semplice? Trattandosi di Cronenberg, ovviamente no. Spider (dal soprannome del personaggio principale) è un film che sì usa un linguaggio filmico in apparenza comune e persino ordinario per accompagnare lo spettatore nel suo viaggio psicologico all’interno di una mente malata, ma osa anche confondere le carte ad ogni sequenza, mescolando ad un certo punto della narrazione passato e presente in modo da sottolineare in misura ancora maggiore l’ineluttabilità di un destino segnato. Un lungometraggio, come pochi altri nella filmografia di Cronenberg, intriso di purissima e amara poesia, commovente nella totale compenetrazione nelle vicende di Spider, una delle migliori interpretazioni in carriera di un attore di talento ma non sempre adeguatamente motivato come Ralph Fiennes. E, al solito, il cinema di Cronenberg non fornisce spiegazioni di sorta: se la mente è un cristallo più o meno delicato, nei confronti di Spider le dinamiche esistenziali hanno fatto tutto il possibile per incrinarlo sino a romperlo. Ci si domanda il perché di tanto accanimento; senza avere il conforto di alcuna risposta. La mutazione della psiche cronenberghiana in Spider raggiunge il punto più alto. O basso, che dir si voglia. Spider è davvero qualcosa di simile ad un piccolo insetto, nel suo mondo “perfetto” costruito per legittima difesa. Come, non certo casualmente, farà il personaggio del film seguente di Cronenberg, il Tom Stall interpretato da Viggo Mortensen in A History of Violence.
La questione del’identità assume in A History of Violence (id, 2005) una valenza riflessivo-filosofica condotta a livelli inusitati nel cinema del regista canadese. E l’interrogazione che pone un’opera che molti al tempo definirono di genere (perfetto. Ma quale?) non è su quale sia il vero nome del personaggio principale Tom Stall, ma su che cosa abbia davvero dentro. Alla prima domanda, in effetti, risponde il film stesso, attraverso la sua evoluzione narrativa tradizionale in chiave thriller; alla seconda nessuno può essere in grado di fornire una risposta. E quest’ultima è la cosa che maggiormente interessa Cronenberg. Il quale mette al centro dello schermo fisico e virtuale un uomo in apparenza serio e onesto, un ottimo padre di famiglia che però è stato qualcosa di terribilmente differente nel suo passato. L’ennesima ambiguità di fondo che nel film tocca profondità pressoché insondabili, costringendo anche lo spettatore più distratto ed istintivamente portato a godersi un film comunque appassionante, a nutrire dei dubbi persino su se stesso. Perché la radicalità di A History of Violence sta tutta nello sguardo limpido e cristallino dell’attore Viggo Mortensen – con il quale Cronenberg ha stabilito un’intesa intellettuale ed artistica immediata – altrove eroe senza macchia né paura (il prode Aragorn nella saga de Il signore degli anelli di Peter Jackson) ed invece qui presunto superuomo da penetrare a fondo nelle più recondite pieghe della propria anima. Ci riuscirà la sua famiglia? Uno dei finali più belli dell’intera storia del cinema non ci dice né sì né no. Perché in determinati casi a parlare può essere solamente il silenzio. Che fornisce risposte solo a patto di saperlo ascoltare con la massima attenzione…
Anche La promessa dell’assassino (Eastern Promises, 2007) – al di là della demenzialità pura del titolo italiano che accentua arbitrariamente la natura thriller della pellicola, visto che nel film non c’è nessun assassino specifico – prosegue il discorso di Cronenberg sull’identità, su cui però pesa in maniera ancora più evidente un Destino “anteriore” che segna l’esistenza di tutti i personaggi di quella che sembra un’autentica tragedia greca, sia pur innestata dei consueti elementi melodrammatici presenti nel cinema di Cronenberg. Ogni characters del film possiede un lato nascosto, oscuro, che non deve trasparire. Nikolai (Viggo Mortensen), autista al servizio della mafia russa in una Londra plumbea come non mai, è in realtà un agente infiltrato. Semyon (Armin Mueller-Stahl), dietro l’aspetto bonario di anziano pater-familias, cela una ferocia che lo ha reso temibilissimo capo-cosca, mentre suo figlio Kirill (Vincent Cassell) deve obbligatoriamente dissimulare la propria natura omosessuale per esigenze di clan. Al centro dell’intrigo l’infermiera Anna (Naomi Watts) ed il suo desiderio di salvare una bambina data alla luce da una ragazza dell’est poi morta di parto. La cui lettura del diario – la verità raccontata da una persona defunta – accentua i toni tragici di un’opera che non può prevedere un completo lieto fine perché troppe sovrastrutture imbrigliano i vari personaggi. Eastern Promises (promesse dall’est) è un meraviglioso film di violenza – straordinaria la sequenza del bagno turco, balletto coreografico di sangue e morte – e d’amore, dove gli opposti finiscono con l’elidersi nelle regole naturali delle cose (la bambina concepita attraverso uno stupro troverà forse l’amore di cui ha bisogno) e il dettato primario della società è improntato unicamente alla sopravvivenza. Ancora una metaforica rivincita della carne cronenberghiana – intesa come grumo di istinti insopprimibili – sulle fatue leggi della ragione. Non a caso la storia esistenziale di Nikolai è scritta sul suo corpo, colmo di tatuaggi. Così come quella del film, già redatta in passato da un qualcosa di trascendente che “manovra” i personaggi come marionette inserite in un gioco molto (troppo) più grande di loro.
E, a proposito di grandezza, impossibile non citare lo straordinario A Dangerous Method (2011). Ancora una volta una profondissima interrogazione su chi siamo, cosa proviamo, cosa ci attrae e cosa ci respinge. Un’opera maestosa, solo in apparenza racchiusa in una cornice ridotta di film sulla psicoanalisi – il plot racconta del rapporto tra Carl Gustav Jung (Michael Fassbender) e Sigmund Freud (Viggo Mortensen), con la variabile Sabina Spielrein (Kiera Knightley), paziente ed in seguito assistente di entrambi – e sul significato più puro e assoluto di quell’oggetto indecifrabile chiamato sentimento. In A Dangerous Method il pericolo del titolo risiede sia nel rifugiarsi nelle sterili ragioni della scienza – la psicoanalisi viene letteralmente frantumata dalle tentazioni carnali – sia nel mettersi troppo metaforicamente (e non) a nudo; perché vivere richiede un suo salatissimo prezzo, in questo lungometraggio quintessenziale che chiude idealmente un secolo, il Novecento, pieno di paure e orrori (Nazismo, due Guerre Mondiali, tanti piccoli altri conflitti, razzismi e molto altro ancora…) per aprirne un altro altrettanto carico di incognite. Come ben testimonia il successivo, ancora una volta quintessenziale, Cosmopolis (2012). Opera, tratta dal romanzo omonimo di Don DeLillo, in cui Cronenberg mette al centro della narrazione un uomo irreversibilmente prigioniero. Fisicamente della propria limousine con autista imbottigliata nel traffico, status symbol arrancante di un potere tanto sterminato quanto, ormai, ridotto alla più totale cecità. Metaforicamente dalla volubilità dei numeri dell’alta finanza. Di un capitalismo terminato da se stesso, dalla propria incapacità di distinzione tra esseri umani e, appunto, numeri. Tra un calo dello yen ed una morte fisica. L’umanità ridotta a cifre che viaggiano per proprio conto, dotate di una loro precisa autonomia. Questo saremo, nella visione post-apocalittica del Cronenberg di Cosmopolis, summa del suo cinema ed epigono dei vari Videodrome o eXistenZ, profezie su una società globale estremamente cangiante. Buona parte della critica ha frainteso e disapprovato. Come sempre accaduto e sempre accadrà nel cinema lungimirante di Cronenberg verrà riletto e compreso a fondo più in là, nel corso del tempo. Il tempo che scorre…
Daniele De Angelis