I dolori del «giovane» Karloff, o La moglie di Frankenstein (1935)
Una notte di tregenda, il brontolìo dei fulmini e l’ululare del vento che investe le mura d’un tetro maniero, dove alla finestra, al riparo di un sontuoso salone riscaldato dal fuoco di un camino, indugia un’aggraziata figura. «Che notte romantica! Fuori la natura in uno dei suoi aspetti più rudi e selvaggi… e qua noi, tre arbitri d’eleganza». George Gordon Lord Byron, o come si definisce egli stesso «il più gran peccatore inglese», si riferisce a Percy Shelley («il più grande poeta inglese») e alla dolce fanciulla intenta a ricamare su un sofà, autrice insospettabile di «romanzi che gelano il sangue nelle vene». Mary Shelley, interpretata da Elsa Lanchester, è convinta di esporre nel suo Frankenstein «una tesi altamente morale», ma questo poco importa ai due illustri poeti, i quali anzi sostengono che il libro pecchi d’un finale troppo brusco. «Volete conoscere il seguito?» chiede allora Mary.
Solo un pazzo risponderebbe di no. E così, dopo un omaggio assai romanzato alle notti burrascose di Villa Diodati, quando l’appassionata fantasia dei nostri eroi viaggiava verso lugubri lontananze sospinta dai brividi di maniera esalati da Fantasmagoriana, James Whale ha l’occasione di dare un seguito al suo Frankenstein con un film che non è affatto peregrino considerare migliore del prototipo.
Bride of Frankenstein (La moglie di Frankenstein), opus magnum del suo genio poetico e visionario, è certo il più raffinato tra gli incubi in celluloide risalenti alla Stagione dei Mostri Universal. Il regista, un po’ come accadde a Mary Shelley sul lago di Ginevra, si spinge in territori sin lì inesplorati, approfondendo il dramma esistenziale del Mostro, animo fragile in un mondo che lo teme e lo rifiuta, e celebrandone con tocco struggente (e autobiografico, data la sua condizione di omosessuale nel cinico milieu hollywoodiano) la dolente, grottesca Diversità. Persino la Sposa Cadavere dall’elettrica acconciatura «assemblata» per lui dal Moderno Prometeo, costretto all’impresa da un vile Mad Doctor (l’indimenticabile dottor Pretorius) che si balocca con omuncoli sotto vetro, esplode in un urlo di terrore e raccapriccio non appena ne scorge l’ingente figura. Nostra padrona è la morte, sentenzia allora il meraviglioso Boris Karloff, sguardo vitreo in cui affonda l’amara, malinconica consapevolezza di un destino crudele, prima di dare sfogo al suo cupio dissolvi.
E se non solo di dolori si nutre la poetica di Whale, ammantata dallo stupefacente bianco e nero (espressionista) di John J. Mescall e sospesa in un sapiente mélange di orrore e romanticismo, tragedia e humour nero (con momenti surreali imposti dal regista in fase di scrittura, dagli spassosi omuncoli di Pretorius alla scena in cui il Mostro è introdotto ai piaceri del tabacco dal vecchio eremita), è pur vero che a commuovere il più smaliziato degli spettatori può bastare l’innocente trasporto che si dipinge sul volto del Mostro raggiunto dalle note struggenti dell’Ave Maria schubertiana.
Alla fine anche sui nostri visi, come su quello del reietto di Karloff sul punto di «darsi la pace», scorre inevitabile una lacrima. Whale l’aveva capito: siamo tutti dei mostri.
Stefano Leonforte