Un’immota realtà
Uno dei due lungometraggi presentati in anteprima italiana nel corso della diciannovesima edizione delle Giornate del Cinema Quebecchese in Italia è l’interessante Bootlegger, opera dal taglio antropologico che segna l’esordio alla regia sulla lunga distanza dell’artista multimediale Caroline Monnet.
La giovane Mani, nativa nordamericana fresca di laurea in giurisprudenza ottenuta brillantemente, torna da Montreal nel Quebec settentrionale, nella riserva dove è stata cresciuta dai nonni. Si accorgerà presto che nulla è cambiato durante la sua assenza, tra razzismo nemmeno troppo strisciante e la Spada di Damocle di un imminente referendum sulla legalizzazione del commercio delle bevande alcoliche che rischia di cambiare drasticamente l’esistenza di molte persone. In primis quella di Laura, wasp sentimentalmente legata ad un pellerossa, la quale ha instaurato un redditizio contrabbando (il titolo originale significa letteralmente contrabbandiere, nella nostra lingua) basato proprio sulla vendita di alcool.
Difficile definire Bootlagger un thriller vero e proprio, nonostante la riuscita atmosfera di incombente minaccia che ne contraddistingue l’evolversi narrativo. Il senso di attesa però raramente, sul piano diegetico, si concretizza in autentici colpi di scena, restando ancorato ad un ritratto sociale del tutto realistico anche perché privo di qualsiasi tentazione edulcorativa. Una parte decisamente rilevante, in questo contesto, viene assunta dalla location: la natura selvaggia del Quebec settentrionale, qui ritratto in piena ambientazione invernale, diviene metafora implacabile dei destini dei personaggi messi in scena, racchiusi in una sorta di limbo dal quale pare impossibile evadere. Il parallelismo tra riserva indiana e prigione, nella descrizione attenta di Caroline Monnet – anche sceneggiatrice con Daniel Watchorn – si fa dunque sensazione tangibile anche per chi guarda. Un circolo vizioso dal quale è possibile uscire solo affidandosi alla riflessione individuale e quindi alla libertà di scelta. Una consapevolezza che Mani – benissimo interpretata dall’autentica attrice indigena Devery Jacobs – tenta in ogni modo possibile di inculcare a quella che è la sua gente. Testimoniando una volta di più l’importanza di non dimenticare mai l’importanza delle proprie radici, soprattutto dopo aver fatto esperienze altrove.
Al di là dell’indubbia bellezza formale, in alcuni frangenti persino troppo insistita nella ricerca di spettacolari scorci naturali, un’opera come Bootlegger non si esime affatto dall’inviare agli spettatori un preciso messaggio socio-politico: il cambiamento può e deve sempre partire “dal basso”, soprattutto dal pensiero di coloro che erroneamente temono di non avere alcun potere decisionale. Cosa che puntualmente accade senza una definita nozione del concetto di comunità, in cui tutto è demandato ad una forma di individualismo esclusivamente votato alla pura e semplice sopravvivenza.
In questo senso il finale della già matura opera prima di Caroline Monnet lascia ben più di una porta aperta alla possibilità che l’utopia si possa realizzare. Prevalendo sia sulla natura ostile che sull’ignavia umana, ben rappresentata in un film che per larga parte sembra possedere i toni di una dolente ballata su una realtà refrattaria a qualsiasi sentore di progresso morale.
Daniele De Angelis