Il rumore di casa
Il cinema francese oggi è un cinema di respiro internazionale, capace di parlare con un linguaggio immediatamente comprensibile alle comunità più diverse, questo soprattutto per merito del regista e produttore Luc Besson, il quale riusci ad aprire la cinematografia francese al mondo ed a farla crescere tanto da risultare una industria internazionale. Non sempre è stato così. Per lungo tempo il cinema francese è stato un cinema particolare, molto legato alle sue tradizioni e linguaggi. Su tutti fu la Nouvelle Vague a stabilire un riferimento forte. Non deve quindi sorprendere che il Québec francofono e la sua cinematografia siano stati influenzati fortemente da quest’ultima in quanto espressione della cultura della “madrepatria”. E non deve dunque stupire che anche il giovane cineasta quebecchese Philippe Grégoire per questo suo Le bruit des moteurs lungometraggio d’esordio presentato nel corso dell’ultima edizione delle Giornate del Cinema Quebecchese in Italia mostri un forte debito nei confronti della Nouvelle Vague.
Potremmo definirlo un “citazionismo colto” di certo cinema francese, in particolare appunto la Nouvelle Vague. Un debito culturale peraltro esplicitamente dichiarato dal giovane regista tra le pieghe del film, in un sottile filo autobiografico con il personaggio di Alexandre (un cogitabondo Robert Naylor), nel quale Grégoire inserisce diversi elementi della sua biografia. C’è anche un altro elemento di forte ispirazione dichiarato dal giovane regista, l’autore québecchese André Forcier, il quale è forse il vero è più forte termine di paragone per Philippe. Abbiamo quindi queste due stampelle alle quali l’autore si appoggia per creare il proprio film, probabilmente per trovare sicurezza alla prima prova con un lungometraggio. Possiamo trovare però un ulteriore riferimento, anche se non dichiarato: il cinema di Wes Anderson. Quello di Grégoire appare come un film rarefatto. È tutto molto ordinato e pulito. La macchina da presa indaga personaggi e situazioni, ma sempre mantenendo una certa distanza. È come se la materia cinematografica servisse a tenere sotto controllo tutto il ribollire dionisiaco della storia. Ed è in questo che vediamo le assonanze con il cinema di Anderson, il quale ha trovato nella letteratura l’alveo per narrare le sue storie mantenendo sempre un certo distacco ironico. Lo stesso fa Philippe Grégoire con il cinema, segnatamente quello francese e di Forcier. Comunque ciò che sembra essere davvero il cuore narrativo del film è l’interrogarsi del regista sul concetto di “casa”. La casa può essere un luogo fisico, certo, ma anche un luogo spirituale. Una domanda che però non trova una risposta, quantomeno univoca.
La pellicola su questo punto resta in sospeso e non sembra riuscire a trovare una sintesi di ciò che ha messo in moto nel corso della narrazione. Restiamo dunque interdetti e con la sensazione che resti qualcosa da dire in questo film. Forse Grégoire troverà la risposta e ce la comunicherà in una nuova pellicola.
Luca Bovio