Sembrava tutto normale…
A volte ritornano e quando accade può avvenire sotto un’altra veste. È il caso di Tuva Novotny, volto conosciuto del cinema scandinavo e non solo che si è fatta notare agli occhi degli addetti ai lavori per le sue apparizioni in film internazionali come Borg/McEnroe e Annihilation. L’attrice di Stoccolma è tornata sugli schermi del Festival del Cinema Europeo, laddove è stata nel 2017 quando Rosemari, la pellicola diretta da Sara Johnsen che la vedeva co-protagonista, ha partecipato alla competizione lungometraggi della kermesse salentina. La sorte ha voluto che Novotny tornasse proprio in quel di Lecce a due anni di distanza per presentare in concorso alla 20esima edizione il suo esordio dietro la macchina da presa dal titolo Blind Spot.
La pellicola, della quale firma anche la sceneggiatura, ci porta al seguito di Thea, una ragazzina che dopo gli allenamenti di pallamano torna a casa dove la madre sta accudendo il fratellino neonato e prepara la cena, aspettando il rientro del marito. Thea sembra intenta a fare i compiti in camera sua quando all’improvviso compie un atto che cambierà definitivamente il corso degli eventi per lei e la sua famiglia. Non vi diremo cosa per non rovinarvi il gusto della visione, ma per suggerire qualcosa in merito vi invitiamo a ripensare all’incipit shock di Miss Violence di Alexandros Avranas. Chi vuol capire capisse.
Insomma, il classico evento inaspettato che piomba sui personaggi, sulla storia e di riflesso sullo spettatore di turno come un fulmine a ciel sereno. Della serie sembrava tutto normale…, ma al contrario non lo era perché il punto di non ritorno è sempre dietro l’angolo. A confermarcelo arriva un film come Blind Spot che ribadisce quanto dietro un’apparente normalità può celarsi un profondo e latente disagio pronto da un momento a l’altro a venire a galla, manifestandosi con tutto il suo carico di dolore e sofferenza sino alle inevitabili e fatali conseguenze.
La pellicola della Novotny affronta di petto e senza mezze misure un tema delicato che solitamente sottovaluto e coperto da un velo di indifferenza sociale, costretto a scontrarsi con la cultura del silenzio. Stiamo parlando della malattia mentale e dei diversi disturbi annessi. Nello specifico in Norvegia, dove è ambientata la vicenda al centro di Blind Spot, il problema è assai diffuso tra i giovani e infatti è sul destino di uno di loro che si concentra il plot del film, quest’ultimo ispirato a fatti realmente accaduti raccontati sulle pagine della cronaca nera. Dopo un lungo lavoro di documentazione, la regista svedese ha notato una mancanza di apertura al confronto sui disturbi mentali, sia in ambiente domestico che nel dibattito pubblico. Ha inoltre constatato come le conversazioni sull’argomento siano spesso caratterizzate da senso di colpa e ricerca di una causa, piuttosto che da un atteggiamento di accettazione e apertura. Da qui l’esigenza e il desiderio di fare luce sulla questione attraverso uno dei casi sulla quale l’attrice si è imbattuta nel corso delle ricerche e sul quale ha poi costruito lo script.
Si passa così in un battito di ciglia dal classico coming of age adolescenziale al dramma umano che coinvolge un’intera famiglia, mandandone letteralmente in frantumi quegli equilibri che come avremo modo di scoprire erano in realtà assai precari. Una venatura mistery che sotterranea di farà largo sotto la mera superficie della timeline sino a palesarsi nel momento della verità. Questa arriverà dopo un’ora e passa di apnea in assetto variabile, vissuta in tempo reale e in un unico piano sequenza. Ed è proprio questa modalità tecnica di racconto del quale si iniziano a contare sempre più tentativi andati più o meno a buon fine. Ultimo in ordine di tempo il crudo e potentissimo Utøya 22. juli, in cui Erik Poppe attraverso uno strepitoso long take ha rievocato il massacro sull’isola norvegese del 2011. La “coreografia” della macchina da presa in Blind Spot non arriva ai medesimi risultati, ma le linee geometriche e poi sporche disegnate nelle diverse location interne ed esterne riescono in alcuni punti ad alzare e di molto il fattore emotivo. Una scelta dunque assolutamente funzionale e non accessoria, utile ad aumentare in maniera esponenziale il coefficiente di coinvolgimento del fruitore nei confronti degli eventi. Senza l’uso del piano sequenza, infatti, con moltissime probabilità l’operazione non sarebbe stata la stessa e nemmeno i suoi esiti. In tal senso, più che di racconto sarebbe meglio parlare di esperienza più o meno immersiva perché il plot è davvero poco stratificato e drammaturgicamente non così di spessore. Ciononostante, il film ha la sua efficacia nel mostrare un’incubo ad occhi aperti che mano a mano prende forma sullo schermo e se ciò avviene il merito è soprattutto della scelta stilistica presa e anche degli attori che hanno contribuito a renderla possibile.
Francesco Del Grosso