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Rosemari

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VOTO: 6

La verità ti farà male

Tra i dodici titoli in concorso alla 18esima edizione del Festival del Cinema Europeo di Lecce ben due provengono dalla Penisola Scandinava. Nello specifico, si tratta di due pellicole battenti bandiera danese, ma nel caso di Rosemari si parla solo di produzione, poiché dietro la macchina da presa figura la regista norvegese Sara Johnsen, qui alla sua quarta fatica sulla lunga distanza.
Chi come noi ha avuto la possibilità di incrociare negli anni passati alcuni dei suoi lavori precedenti avrà subito notato nelle maglie drammaturgiche una serie di corrispondenze e di fili rossi che li congiungono, soprattutto da un punto di vista tematico. Tra questi ci sono la famiglia e la complessità dei legami che la alimentano. Non è un caso, quindi, che anche questa volta, tanto la storia quanto i personaggi che la alimentano, gravitino intorno al medesimo baricentro. Siamo catapultati senza se e senza ma nel bel mezzo di un ricevimento nuziale, al seguito della titubante sposa Unn Tove che trova una neonata abbandonata nella toilette dell’hotel e la affida agli assistenti sociali per l’infanzia. Sedici anni dopo, una ragazza giovane e vivace bussa alla sua porta. Si tratta di Rosemari, la bambina che aveva trovato al matrimonio. Le due donne si uniscono per ricostruire le circostanze che hanno portato alla nascita della ragazza. Scoprono così la storia dell’amore sfrenato di una giovane coppia, un eccentrico ex pugile con una passione per l’arte erotica, e una madre che ha tenuto nascosto il segreto più grande della sua vita. Il resto, ovviamente, lo affidiamo alla visione.
La Johnsen, dunque, torna per l’ennesima volta sul luogo del delitto, ma con una sostanziale variazione che consente alla sua ultima fatica di distaccarsi, anche se solo in parte, da ciò che aveva raccontato anni prima. La variazione sta nel registro e nel tono utilizzati, con un tocco di leggerezza che viene dall’avere mescolato senza soluzione di continuità la commedia con il dramma. Se in passato la cineasta norvegese aveva puntato unicamente su toni seri, questa volta la tavolozza dei colori del racconto si apre ad altro, dando origine a quel mix che oggi tra gli addetti ai lavori è conosciuto come dramedy. Questo piccolo cambiamento di rotta, che come abbiamo visto non riguarda le tematiche ma il registro con il quale si porta avanti la narrazione, permette di fatto all’autrice di mostrare al pubblico l’altra faccia del suo cinema. Una faccia, questa, che purtroppo non convince quanto quella mostrata in passato, con la Johnsen che sembra più a suo agio quando si trova a fare i conti con un dramma puro. Quindi, un film come Rosemari è servito prima di tutto alla cineasta per capire definitivamente su cosa puntare, ma anche a noi potenziali fruitori delle sue opere per entrare più a fondo nel suo modus operandi.
Lo script e la trasposizione mostrano sin da subito una serie di fragilità destinate strada facendo a tramutarsi in debolezze strutturali. A risentirne è il racconto nella sua interezza, ma anche le one line dei singoli personaggi che, arrivate al fatidico giro di boa, subiscono un’inspiegabile battuta d’arresto. Ciò che tiene a galla l’opera, impedendo a questa di perdere definitivamente l’attenzione dello spettatore di turno, è la linea mistery legata al percorso di ricerca che le due protagoniste portano avanti per giungere a una verità dolorosa, che lascerà il segno. La Johnsen gioca con il pubblico al gatto e al topo, svelando gradualmente le carte in tavola sino a un colpo di scena finale che è tutto tranne che telefonato. L’elemento giallo diventa di fatto l’unica ancora di salvezza per un film che, altrimenti, sarebbe sprofondato sotto la soglia della sufficienza. La bravura della regista, qui nelle vesti anche di sceneggiatrice, sta proprio nell’aver trovato un modo per salvare il salvabile, attraverso quello che a conti fatti appare come un vero e proprio piano B, con il quale si riesce a fare fronte anche all’interruzione altrettanto inspiegabile del flusso emozionale. Con una storia potenzialmente coinvolgente e fortemente catartica come quella al centro di Rosemari, una simile interruzione non può che aumentare i rimpianti nei confronti di ciò che poteva essere e invece non è stato.

Francesco Del Grosso

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