Diversi eppure simili
C’è una sequenza, in Borg McEnroe del regista danese Janus Metz, che lascia intravedere le potenzialità di un’opera del genere. Siamo all’inizio del film, nell’appartamento monegasco di Björn Borg situato in uno degli ultimi piani del lussuoso residence. La macchina da presa, sposando il punto di vista del campione svedese, volge verso il basso, inquadrando la lontana piscina e il suo contorno, nonché creando un senso di vertigine fisica e morale in chi guarda. Borg comincia poi a fare delle flessioni appoggiandosi pericolosamente al bordo del parapetto. Un momento shock che non trova però seguito nel proseguo del film, proteso alla descrizione dei due tennisti seguendo con disciplina la loro iconografia tradizionale.
Potremmo idealmente dividere in due categorie i fruitori di Borg McEnroe: quelli che conoscono, almeno in modo superficiale, la carriera e la vita di due miti della racchetta; l’altra, composta da coloro inesperti di tennis e che, magari per motivi generazionali, hanno solo sentito parlare alla lontana di una rivalità capace di travalicare i confini sportivi per farsi vera e propria questione identitaria, con Borg a simbolizzare la proverbiale freddezza scandinava (conservatrice?) e McEnroe a rappresentare la totale anarchia (progressista?) in uno degli sport elitari per antonomasia. Perciò con regole non scritte decisamente refrattarie ad ogni possibile infrangimento. I primi troveranno molta filologia in una ricostruzione cinematografica che poco o nulla aggiunge alla Storia ufficiale. I secondi si divertiranno senz’altro in misura maggiore, se non altro perché beneficamente travolti da una valanga di aneddoti quasi tutti verificabili con assoluta precisione. Per il resto il lungometraggio di esordio di Janus Metz – nella finzione, beninteso: Metz ha una vasta esperienza alle spalle in campo documentaristico, con ad esempio il pluripremiato Armadillo (2010) su un gruppo di soldati danesi in missione afghana – abbandona presto qualsiasi velleità di approfondita indagine interiore sui due per dedicarsi ad un unico punto focale, peraltro affatto trascurabile: quanto Borg e McEnroe, in apparenza distanti anni luce tra loro in campo sia per caratteristiche di gioco che per comportamento, fossero in realtà molto simili a livello caratteriale. Entrambi figli di due padri estremamente importanti e ingombranti per loro, cosa peraltro non nuova nel mondo del tennis e quasi mai positiva; putativo quello di Borg (il primo ed unico scopritore-allenatore Lennart Bergelin), biologico quello di McEnroe. Ed entrambi con addosso tutta la forza di una pressione inimmaginabile, figlia della predestinazione a diventare dei numeri uno.
Al di là delle funzionali interpretazioni – Sverrir Gudnason è Björn Borg, mentre il più conosciuto, da noi, Shia LaBeouf presta il volto a John McEnroe – Janus Metz e lo sceneggiatore Ronnie Sandhal non sono riusciti nell’impresa, obiettivamente difficile, di rendere del tutto tridimensionali le figure dei due campionissimi, trasformandoli però in due personaggi perfettamente cinematografici usati allo scopo di creare empatia ed emozioni. Cosa che puntualmente si verifica soprattutto nell’ultima parte del film, quella dedicata alla leggendaria finale di Wimbledon del 1980, comprendente uno dei tie-break più appassionanti dell’intera epopea tennistica. In questo frangente Metz si può sbizzarrire in regia e montaggio davvero ben realizzati, accompagnando per mano lo spettatore in quel teatro dei sogni, prima e dopo quella finale, chiamato campo centrale dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club. Meglio conosciuto, appunto, come Wimbledon. Ad uso e consumo della platea, poi, il post scriptum, con la licenza poetica dell’incontro tra i due in aeroporto al termine del torneo, quasi una diretta filiazione dell’epilogo di Rush (2013) di Ron Howard, altra storia, guarda caso, di grande rivalità sportiva in ambito motoristico.
Borg McEnroe, presentato in anteprima alla dodicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, resta allora, tirando le somme, un buonissimo prodotto di intrattenimento a cui manca quello scatto in avanti che ne avrebbe fatto il grande film che sarebbe potuto diventare. Ma, in fondo, va bene lo stesso: i Miti, quelli veri, possono così riposare in pace.
Daniele De Angelis