La lotta per i diritti dei neri non ha mai fine
Il nostro è un periodo storico in cui la causa dei neri è nuovamente al centro del dibattito politico e sociale americano, e non solo americano. A ricordarci quanto è lontano, eppure attuale, il problema della integrazione razziale, sorta di peccato originale USA, è anche un cortometraggio come questo Augustus, ambientato nel Massachussets del 1841.
E’ qui che Augustus (Ayinde Howell), uno schiavo fuggito dalle piantagioni del sud, si guadagna da vivere lavorando come può. Impegnato nella costruzione di una chiesa per conto del reverendo Morris, si rende rapidamente conto che razzismo, pregiudizi e soprusi non sono solo una questione degli stati meridionali che si è lasciato alle spalle. Con scuse pretestuose e prepotenze, infatti, il suo datore di lavoro (che spesso nasconde la sua ipocrisia dietro le letture della Bibbia) non paga gli operai neri o decide comunque di pagarli molto meno della cifra pattuita. Il risentimento si fa strada in Augustus che, oltretutto, è tormentato da incubi atroci in cui ha visioni dell’America del futuro, un paese in cui suo figlio viene ammazzato a sangue freddo da un bianco. Al momento di ribellarsi apertamente al trattamento che gli viene riservato, finisce nel mirino di gente senza scrupoli che intende sbarazzarsi di lui rivendendolo agli schiavisti del sud. Invece di fuggire di nuovo, supportato dalla moglie Anna (Michelle Mitchenor), decide di unirsi alla causa di intellettuali bianchi e abolizonisti che, con coraggio, gli aprono le porte ad una carriera di oratore e di punto di riferimento per la causa della sua gente.
Ispirato alla figura realmente esistita dell’attivista Frederick Douglass (nato appunto Frederick Augustus Washington Bailey), questa breve pellicola del regista di colore Jon Alston cerca di tracciare un parallelismo tra il passato e la situazione attuale. Un tempo giocatore di football americano per la NFL, Alston ha deciso già dal 2011 di passare alla carriera cinematografica per portare avanti le sue idee e la sua lotta per i diritti dei neri americani. Un proposito certamente encomiabile ma che, almeno qui, si realizza in un risultato eccessivamente didascalico. Nonostante il basso budget, la resa visiva è buona sia dal punto delle scenografie che dei costumi e, tutto sommato, anche gli attori contribuiscono ad un esito finale più che decoroso dal punto di vista tecnico. A lasciare perplessi è la sceneggiatura e le sue trovate per portare lo spettatore dalla parte del protagonista (se mai ce ne fosse bisogno). Sono i continui rimandi, tramite gli incubi di Augustus, agli scenari metropolitani contemporanei, fuori luogo rispetto all’ambientazione principale di metà ‘800 e, francamente, dall’aria un po’ forzata. Il finale, composto da reali e brutali filmati di cittadini neri uccisi per le strade d’America, compreso naturalmente quello famigerato in cui trova la morte George Floyd, è un atto d’accusa provocatorio e, vista la comparsa della scritta “Black Lives Matter”, schierato con estrema decisione. Va detto però che, senza addentrarci in un discorso estremamente lungo e complesso, il voler affermare che dai tempi della schiavitù ad oggi sia cambiato ben poco appare probabilmente eccessivo, pur concordando sul fatto che, in materia di reale integrazione sociale, c’è ancora molta strada da fare.
Massimo Brigandì