
La mia Africo
Negli ultimi anni Mimmo Calopresti si è dedicato con profitto al cinema documentario, tornando in qualche modo alle origini, visto che sin dai tempi della collaborazione con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD) era stata questa la sua vocazione primaria.
Con Aspromonte – La terra degli ultimi, però, il regista di film come La seconda volta (1995), La parola amore esiste (1998) e Preferisco il rumore del mare (2000) è voluto tornare al lungometraggio di finzione. Per fortuna lo ha fatto firmando un progetto dal timbro molto personale, che chiama in causa direttamente le sue origini calabresi, il persistente interesse a documentare e narrare le condizioni dei più disagiati, l’attrito frequente tra sperequazioni sociali e utopia.
In un lungometraggio come Aspromonte – La terra degli ultimi, impreziosito dalla fotografia di Stefano Falivene che con quelle tonalità calde, cariche, pare enfatizzarne la propensione verso il realismo magico, pensiamo che neanche la lunga esperienza documentaristica di Calopresti sia andata sprecata. Vi è infatti qui un’attenzione speciale per il territorio. In primo piano una Calabria ancestrale. Ma al contempo una Calabria dimenticata dalle autorità, una Calabria sfruttata senza ritegno, una Calabria troppo spesso umiliata e derisa, fatta rivivere sullo schermo rievocando trasversalmente episodi realmente accaduti presso la località di Africo nell’immediato Dopoguerra, dall’assenza di un medico e dei più elementari servizi all’arroganza di uno Stato italiano che si presentava in paese solo per raccogliere esosi gabelli e reprimere qualche sporadica protesta, dall’esasperazione popolare che portò persino ad assaltare la locale stazione dei Carabinieri ai continui soprusi perpetrati da avidi e spietati latifondisti, dalla comparsa di una aurorale cornice ‘ndranghetista quale risposta alla colpevole assenza dello Stato fino a quel disastro naturale, la violenta alluvione del 1951, che costrinse gli abitanti ad abbandonare le proprie case. E nel farsi diapositiva di un tempo che fu, di un antico borgo fatto sparire dalla furia degli elementi, dalla povertà e dal disinteresse delle istituzioni, Aspromonte – La terra degli ultimi ci ha ricordato alla lontana l’ottimo Montedoro di Antonello Faretta, diverso e senz’altro più elegiaco tributo ad un piccolo centro del Meridione, Craco in Lucania, dolorosamente abbandonato dagli abitanti e ridotto poi a città fantasma.
Scritto da Calopresti assieme a Monica Zapelli, già autrice de I cento passi, con un significativo apporto creativo da parte del produttore Fulvio Lucisano, Aspromonte – La terra degli ultimi trae spunto da un’opera letteraria di Pietro Criaco, Via dall’Aspromonte, rendendogli giustizia attraverso l’amorevole cura di tutto ciò che concerne l’ambientazione; un aspetto concepito in maniera tale da far rivivere quelle pagine drammatiche con un’intensità e una empatia di fondo che, almeno a nostro avviso, non faranno grande fatica a coinvolgere emotivamente gli spettatori più sensibili, nonché quelli interessati a ricordare e approfondire cos’era l’Italia fino a qualche decennio fa.
La più grande scommessa di una simile operazione cinematografica poteva apparire il cast, composito e a prima vista un po’ stravagante. Ebbene, l’umanità delle situazioni e dei personaggi proprio da tali contrasti ha finito per assorbire linfa vitale: per esempio dai duetti, stralunati e a tratti commoventi, che vedono protagonisti un trasognato Marcello Fonte e quella figura per certi versi così “aliena” – e comunque desiderosa di integrarsi – della maestrina venuta da fuori, impersonata da Valeria Bruni Tedeschi col piglio che le si confà maggiormente. Di contro, qualche segmento del racconto un po’ troppo “scritto” e didascalico sembra pesare, di tanto in tanto, sulla struttura complessiva dell’opera. Il montaggio alternato che, verso la fine, propone un enfatico regolamento di conti tra i personaggi principali del film può rientrare, a buon diritto, tra codesti eccessi drammaturgici. Piccole sbavature, in fin dei conti, che non inficiano più di tanto la riuscita di questo sentito omaggio cinematografico, che Calopresti ha voluto dedicare alla propria terra d’origine e al nostro recente passato.
Stefano Coccia