Uomo d’acqua salata
Con buona pace di Zack Snyder, per l’occasione relegato a compiti meramente produttivi, era abbastanza prevedibile il fatto che Aquaman sarebbe diventato la miglior trasposizione cinematografica da fumetto DC Comics di sempre. Continuando ad essere cattivi, non è che ci volesse poi molto, considerando che finora l’unico lungometraggio di discreto livello era stato sinora Justice League – in cui, coincidenza, compare proprio il personaggio di Aquaman – guarda caso ultimato da un “fuoriuscito” dalla casa rivale Marvel, cioè Joss Whedon, subentrato nel progetto a seguito delle problematiche famigliari di Snyder. Nel caso di Aquaman a far pendere la bilancia verso un malcelato ottimismo era stato l’annuncio su colui che si sarebbe posizionato dietro la macchina da presa, quel James Wan ormai da tempo considerato una sorta di Re Mida nell’ambito hollywoodiano e zone circostanti. Aspettative affatto tradite. Perché il regista di origine malese ha confermato per l’ennesima volta una prodigiosa adattabilità verso ogni progetto per cui viene chiamato in causa – dall’horror a basso costo delle saghe Insidious e The Conjuring, sino ad un franchise action collaudatissimo come Fast and Furious, con il suo capitolo sette migliore per distacco dell’intero ciclo – nonché la riproposizione di una formula basica ma di sicuro successo. Quell’abilità quasi diabolica che vede andare a spontaneo braccetto sfarzo spettacolare ed empatia spettatoriale nei confronti del personaggio o personaggi principali di turno. Cerchiamo dunque di comprendere come questa sorta di “miracolo” cinematografico, in tempi di opere ciclostilate in base a non scritte ma evidenti regole produttive, sia potuto accadere.
In primo luogo c’è il rispetto filologico per il fumetto di partenza. Nato nel lontano 1941 dal creatore Mort Weisinger con disegni di Paul Norris, il nostro Arthur Curry alias Orin (nome atlantideo), quindi consacrato Aquaman, viene concepito dall’amore tra la Regina di Atlantide (brillante cameo di una fulgida Nicole Kidman, nel film) e un modesto guardiano di un faro sperduto tra gli oceani. Un primo passo nella costruzione della classica captatio benevolentiae dello spettatore verso il protagonista la fa, in sede descrittiva, la sua innata simpatia, la riluttanza a voler compiere ciò che il ruolo gli imporrebbe: fungere da anello di congiunzione, perciò pacificatore, tra il mondo sulla superficie terrestre e quello marino. Battuta sempre pronta, Aquaman è null’altro che un uomo comune, proiettato in circostanze straordinarie dai propri poteri. Aspetto quest’ultimo da condividere assieme a molti altri supereroi giocoforza costretti ad assumere un ruolo salvifico. Tuttavia Wan e suoi sceneggiatori non dissimulano, anzi sottolineano, l’evidente sottotesto politico, tremendamente attuale oggi in tempi di sovranismo revanscista e ottusa preservazione della razza. Arthur Curry (ottimo Jason Momoa, da adulto) è un “diverso”, un meticcio, un mezzosangue. Bulleggiato da bambino, considerato un inferiore nel Regno di Atlantide, soprattutto dall’infido Re Orm (un efficace Patrick Wilson, autentico attore feticcio di Wan), fratellastro molto sui generis. A leggerlo in controluce, tra una mirabile sequenza d’azione e un’altra, Aquaman può essere anche considerato un grido d’affermazione identitario (finale docet), una sorta di diritto ineludibile ad essere considerati cittadini del Mondo e non “clandestini” di un qualunque paese ospitante. Se poi aggiungiamo, in tempi di parità di genere sessuale, il considerevole apporto alla causa avventurosa del film fornito da una volitiva Mera (creatura di Atlantide interpretata da Amber Heard) e dalla già menzionata Regina Atlanna appare chiaro come lo spessore di Aquaman sia destinato a crescere in termini esponenziali, soffocando in culla l’accusa dei detrattori di essere il consueto film-giocattolo privo di anima e nulla più. Ovviamente l’azione la fa da padrone, ma Wan riesce, per mezzo di un talento in dote a pochissimi, a raggiungere l’epica senza mai nemmeno sfiorare l’effetto ridondanza.
La tridimensionalità fantastica del fumetto – in questa storia dal retrogusto quasi shakespeariano di padri, madri e figli che unisce buoni e cattivi – insomma vola in modo più che sufficientemente alto sulle ali della fantasia nella costituzione di nuovi universi per pubblici di ogni età anche sul grande schermo. In tutta franchezza, al netto di una durata forse un pochino eccessiva (ben oltre due ore) con relative e forse inevitabili reiterazioni narrative, ci pare risultato tutt’altro che trascurabile.
Daniele De Angelis