La scimmia ha ucciso la scimmia
I’ll do what I want but irresponsibly
It’s evolution, baby
Pearl Jam, “Do the Evolution”
Alla serata conclusiva del Fantafestival era abbinata un’anteprima molto attesa, specialmente da chi aveva avuto modo di apprezzare L’alba del pianeta delle scimmie, il reboot della vecchia serie cinematografica realizzato nel 2011. Ebbene, anche considerando che il film è iniziato un po’ sul tardi, per via della cerimonia di premiazione, Apes – Revolution non ha deluso le aspettative: lo si è seguito col fiato sospeso dall’inizio alla fine, per quanto nel complesso il materiale narrativo fosse leggermente inferiore a quello del precedente lungometraggio. Visto però che il sequel diretto dal bravo Matt Reeves passa già il testimone, nell’epilogo, al successivo capitolo, speriamo che i distributori italiani abbiano meno grattacapi coi titoli, nell’immediato futuro: avendo già ribattezzato il capostipite L’alba del pianeta delle scimmie, per l’uscita di Dawn of the Planet of the Apes (proprio questo il titolo originale) si sono visti costretti a ripiegare su un improbabile Apes Revolution; quando in realtà sembra essere più l’evoluzione, che una vera e propria rivoluzione, l’asse portante del nuovo episodio cinematografico. Se l’andazzo è questo, speriamo solo di non trovare sulla prossima locandina un Vacanze di Natale nel pianeta delle scimmie o Il pianeta delle scimmie colpisce ancora, perché sappiamo bene quanto la fantasia dei titolisti italiani possa essere morbosa…
Abbiamo voluto divagare un po’. E lo abbiamo fatto lasciandoci andare a un po’ di facezie, ma ora è meglio tornare sul film, vista anche la gravità dei temi trattati: dopo tutto si sta parlando della possibile estinzione della razza umana, toccando ferro. Dopo tutto il precedente racconto cinematografico si era chiuso con l’insurrezione di primati guidata dall’indomito Cesare e con una aurorale diffusione del cosiddetto “virus delle scimmie” in gran parte del pianeta. Ecco, con Apes Revolution – Il pianeta delle scimmie sono trascorsi ben 15 anni da tali eventi. Cesare è un po’ invecchiato ma è ancora il leader riconosciuto e rispettatissimo di quel branco di scimpanzé, oranghi e gorilla che ha compiuto un notevole balzo evolutivo, dopo esser sfuggito alle grinfie degli umani ed essersi rifugiato nel fitto di una foresta, dando vita a una comunità solidale, organizzata, efficiente. D’altro canto la società umana è in piena decadenza: il famigerato virus l’ha in gran parte sterminata, al resto hanno pensato i dissidi interni e l’incapacità di relazionarsi pacificamente con scimmie sempre più forti e determinate. Sarà proprio il contatto accidentale tra il branco di Cesare e un gruppo di sopravvissuti a riaccendere l’epopea, lasciando intravvedere un possibile equilibrio, destinato però a essere travolto da nuovi venti di guerra. Una guerra insensata e brutale…
La sceneggiatura cui si è appoggiato il talentuoso Matt Reeves (si sta parlando dell’autore di Cloverfield, ricordiamocelo sempre), frutto del lavoro combinato di Mark Bomback, Rick Jaffa e Amanda Silver, racchiude in sé pregi ma anche limiti del versante più progressista di Hollywood. Gli aspetti virtuosi in definitiva prevalgono. La trama, ben articolata, mette in luce sia la reciproca diffidenza che il tentativo di dialogo e di riavvicinamento, tra umani e scimmie. Ma in entrambi i campi ci sono personaggi segnati dall’odio, un odio generato magari da esperienze funeste, che nel continuo susseguirsi di tradimenti, aperture, sospetti, patti prima sanciti e poi stracciati, si adopereranno sin dall’inizio per compromettere le sagge risoluzioni prese dai più illuminati tra gli uomini e da Cesare stesso. Tutto sommato la conflittualità interna a ciò che resta dell’Homo Sapiens è l’elemento sviluppato in modo più convenzionale: il feticismo delle armi e la ricerca spasmodica di fonti di energia sembrano farla da padrone, come in tanti altri film. Molto più interessante la diatriba che si innesca, con esiti quasi shakespeariani, nel clan scimmiesco: la figura saggia e prometeica di Cesare deve infatti subire le rivalse di un suo luogotenente, Koba, animale da laboratorio che ne ha subite troppe e che non riesce più a controllare i suoi impulsi vendicativi, amplificati e non sublimati da quella nuova coscienza di sé raggiunta relativamente da poco. It’s evolution, baby. Le scimmie apprenderanno così a usare le armi degli umani per uccidere e sottomettere. Arrivando peraltro a quel fatidico “la scimmia ha ucciso la scimmia”, autentico punto di non ritorno, con cui si cita molto intelligentemente un’analoga svolta presente nella saga originaria, quella che almeno all’inizio vedeva protagonista Charlton Heston.
Detto questo, quasi inevitabilmente la struttura del plot può apparire inscatolata in determinati schemi, rispetto alla maggiore libertà narrativa del precedente capitolo, diretto dal meno quotato Rupert Wyatt. Qui si possono invece cogliere, in filigrana, le classiche dicotomie che il cinema americano di indole pacifista ha già illustrato più volte, anche meritevolmente, ma rischiando di incappare nelle semplificazioni del caso. Avatar potrebbe essere l’esempio più recente di tale tendenza. Ma il cuore ci porta a ricordare anche Star Trek VI – rotta verso l’ignoto, senz’altro uno dei capitoli più maturi della celebre saga spaziale, per l’accortezza di uno script che vedeva gli accordi di pace tra terrestri (coi loro storici alleati) e Klingon messi in pericolo da guerrafondai di ambo le parti. Ecco, per quanto tutti i film citati partano da intenzioni lodevolissime, può affacciarsi a tratti la sensazione che l’impronta morale data al racconto abbia un ché di furbetto, ovvero sia messa lì a lavare le coscienze degli spettatori senza approfondire troppo. Ovviamente subentrano poi le differenze, anche estetiche. Paragonato a Apes – Revolution, l’altro blockbuster che ebbe un enorme successo, Avatar, ha una complessità narrativa di gran lunga minore, nel rappresentare il conflitto tra invasori umani e razza aliena simbioticamente legata al proprio ambiente naturale; ma beneficia in compenso della scrupolosa attenzione che James Cameron sempre ha per la messa in scena, nonché del senso di meraviglia indotto dalle immaginifiche scenografie virtuali. Insistendo su tale parallelo, l’habitat rigoglioso e variopinto di Pandora non ha certo riscontri nella Terra devastata di Apes – Revolution, dove Matt Reeves ha optato per un’impronta maggiormente monocromatica che inizialmente può infastidire, ma che strada facendo si rivela assai funzionale alla cupezza del racconto: specie quando inizierà la battaglia, le tonalità smorte della città in rovina e il verde scuro della foresta saranno il palcoscenico ideale, per l’atmosfera da tregenda venutasi a creare. Ma non solo. In un film che sembra farsi apprezzare soprattutto per il pregevole fotorealismo, capace di umanizzare i personaggi scimmieschi più degli umani stessi e di dar vita così a quadretti famigliari incredibilmente commoventi, Matt Reeves non rinuncia neanche, al momento opportuno, a piccoli pezzi di bravura: tale è di sicuro, durante lo scontro più feroce tra umani e scimmie, la soggettiva del mezzo corazzato espugnato dal nemico, che da sola assicura un brivido duraturo e profondo.
Stefano Coccia