Strane simmetrie
L’ultima edizione di Science + Fiction poteva vantare anche, nel suo ricco menu, una sezione inedita intitolata Swiss Fantastic Films. Ovvero una variegata vetrina focalizzata sul cinema di fantascienza svizzero, alla cui scoperta ci siamo lanciati volentieri.
Lungometraggi di finzione più o meno recenti. Qualche “classico” ripescato da decadi passate. Un’agguerrita selezione di cortometraggi. E non poche, nel corso dell’esplorazione, si sono rivelate le chicche da “circoletto rosso” (per dirla con Rino Tommasi e Gianni Clerici), dal surreale Der Unschuldige (2018) di Simon Jaquemet (già scoperto in realtà nel 2020, grazie al Festival del Cinema Svizzero Contemporaneo) fino a un eccentrico “cult movie” come La vergine di Shandigor, irresistibile delirio fantaspionistico diretto nel 1967 da Jean-Louis Roy.
Ma se c’è un film, tra questi, che ci ha spinto a rivedere le nostre idee di Perturbante cinematografico allargandone gli orizzonti, non può che essere Animals (2017) di Greg Zglinski.
Trattasi peraltro di una co-produzione tra Svizzera, Austria e Polonia, come la presenza in cabina di regia del cineasta originario di Varsavia poteva già indurre a pensare. Delirio mitteleuropeo dalle molteplici implicazioni, lo stralunato e destabilizzante racconto cinematografico ha inizio a Vienna, con la scena della ragazza che si getta da una finestra, per poi illustrare la quasi contemporanea partenza per la Svizzera di una coppia in crisi, che abita nello stesso palazzo dell’aspirante suicida. L’appartamento dei due non è però destinato a rimanere vuoto, avendolo loro affidato in previsione di una lunga assenza a un’altra giovane donna, che andrà incontro a non meno misteriosi incidenti…
Qualsiasi altro tentativo di riportare la sinossi a un canone “oggettivo”, naturalistico, convenzionale, andrebbe però a infrangersi su un muro di surrealismo, arcane corrispondenze e inquietanti simmetrie diegetiche.
Più che l’ordine degli eventi, ciò che gradualmente (o con bruschi strappi) va affermandosi nel corso della narrazione è l’importanza delle risonanze; il profilarsi non soltanto di situazioni improntate a una originale forma di realismo magico, in cui le stesse presenze animali finiscono per svolgere un ruolo quasi simbolico, “totemico”, ma anche di quella labirintica struttura drammaturgica che vede le singole scene dialogare in modo apparentemente rapsodico e allucinatorio con altre. Almeno finché il disegno generale non comincerà a prendere forma. E forse anche dopo.
Fedele al titolo scelto per la sua opera, Greg Zglinski fa sì che in particolare Nick, cuoco in procinto di visitare laghi svizzeri per raccogliere nei paesini ricette tradizionali, e la sua compagna di vita Anna, scrittrice di libri per bambini, abbiano incontri (o in qualche caso scontri) con una lunga lista di animali, ferini faccia a faccia le cui circostanze risultano vieppiù anomale, ansiogene e stranianti. Dalla pecora piombata in mezzo alla strada all’uccelletto che va a schiantarsi di notte su una parete della loro stanza, passando ovviamente per l’enigmatico gatto nero dotato di favella che con la sua conturbante epifania fa persino concorrenza alla tenebrosa volpe di Lars von Trier, quella che in Antichrist se ne usciva con l’indimenticabile battuta “Il caos regna!“. Anche nelle manifestazioni totemiche di Animals è comunque un timbro misterico e alquanto funereo a imporsi.
Tutto ciò, assieme ai vorticosi incastri proposti di continuo in sceneggiatura, produce suggestioni che mettono in crisi non soltanto la logica tradizionale, ma anche certe “zone di comfort” del classico ménage borghese: l’ansia di perdere il controllo, il timore di essere traditi, la possibile violazione dello spazio domestico. Quest’ultimo aspetto in particolare è trattato con strumenti espressivi la cui radice ondeggia tra Lynch, Polański e Aronofsky, vedi ad esempio l’insistenza sugli spazi liminari, nella fattispecie porte e finestre, quale fonte di turbamento. La regia stessa, validamente supportata dalla fotografia di Piotr Jaxa come pure dalle musiche opprimenti di Reto Stamm e Laurent Jespersen, accompagna tale spirale ossessiva con uno stile tanto magnetico quanto calibrato e implacabile, che ha nell’alternanza giorno/notte positivo/negativo del fatale viaggio in macchina il picco più alto.
Stefano Coccia