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Album

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VOTO: 7.5

AAA cercasi bimbo

Presentato in anteprima italiana nel concorso del 18esimo Festival del Cinema Europeo, Album è approdato sugli schermi leccesi dopo un fortunato percorso nel circuito festivaliero internazionale iniziato nel maggio 2016 con la premiere alla Semaine de la Critique di Cannes 2016, dove si è aggiudicato il France 4 Visionary Award. Da allora, l’opera prima di Mehmet Can Mertoğlu si è portata a casa una serie di importanti riconoscimenti, ultimo dei quali al Sevilla Festival de Cine Europeo 2016. Di conseguenza, le aspettative nei confronti della pellicola non potevano che essere alte; aspettative che fortunatamente non sono state deluse, con la visione in terra salentina che, oltre a certificare la qualità dell’opera in termini drammaturgici, ha messo in evidenza anche le doti registiche del cineasta di Akhisar. Entrambe le qualità emergono prepotentemente e in maniera cristallina già dai primissimi minuti, grazie a un pregevole e significativo piano sequenza capace di racchiudere in sé i punti di forza e le caratteristiche pregnanti del film. Ma andiamo per gradi.
Il piano sequenza con il quale si apre l’esordio del ventinovenne regista turco ci porta in un allevamento di bovini, dove assistiamo all’accoppiamento di due animali e al conseguente parto di una mucca. La scena in sè, a un primo sguardo, sembra non volere dire nulla di particolarmente rilevante, ma invece si rivelerà successivamente un’efficacissima chiave di lettura e una potentissima metafora del complesso tema del quale Album, come avremo modo di scoprire,  si è fatto portatore sano.  La pellicola narra la storia di una coppia senza figli costretta a creare un finto album fotografico su un periodo di gravidanza – con foto ambientate in spiaggia, al lavoro, in momenti di relax a casa. In questo modo, il bambino che i due stanno per adottare potrà identificarli come i suoi amorevoli genitori biologici, e loro avranno dei documenti di vita reale da esibire davanti ad amici e colleghi. Bahar e Cüneyt sono una comune coppia borghese con valori, sogni e preoccupazioni tipici della provincia urbana. Un figlio completerebbe la loro immagine di vita perfetta, ma l’adozione può trasformarsi in un lungo processo burocratico, soprattutto per dei genitori esigenti. La perseveranza e i giusti agganci, però, sono di grande aiuto. La coppia porta avanti con orgoglio la farsa della storia familiare montando foto in ospedale con il figlio adottivo. È il momento di cominciare una nuova vita con lui. Grazie alla sua influenza burocratica, Cüneyt, insegnante di storia, vede presto accolta la sua richiesta di trasferimento in una città distante. Ma la coppia va in panico quando scopre che… Ovviamente, lasciamo allo schermo il gusto di tale scoperta.
Per il resto, sul versante drammaturgico e narrativo ci troviamo a misurarci con una tematica che, come anticipato all’inizio della recensione, porta con sé una serie di variabili impazzite, per niente facili da gestire se non con un attento e preciso approccio alla materia. Mertoğlu ci parla dell’infertilità, problematica che tuttora è motivo di disonore in Turchia. Quando le coppie decidono, infatti, di ricorrere all’adozione come ultima possibilità, è pratica diffusa tra loro creare prove di un legame biologico con il bambino. Da qui, la necessità dei due protagonisti di dare vita a una finta raccolta di scatti ambientati nel periodo della maternità. Album ha dunque una collocazione geografica ben precisa, ma il suo tema e la storia che narra, al contrario, non hanno confini. Ciò che vale per la Turchia vale, spesso, anche per i paesi mediorientali, e senza dubbio anche per alcune regioni dell’Europa Occidentale. Questo fa di Album una pellicola dal DNA universale e allo stesso tempo una scherzosa variazione sul tema. Dietro il dramma umano della coppia protagonista si palesa, infatti, una critica nei confronti della Società turca, delle arretratezze mentali e degli schemi ideologici che la tengono ancora in gabbia. Per farlo, l’autore alterna ai toni drammatici un sottile e chirurgico humour nero che entra sempre a gamba tesa sullo spettatore, cambiando continuamente pelle alla storia e alle dinamiche che la compongono. Questo dona al film una certa imprevedibilità, che avrà il suo culmine nell’atroce e aperto finale.
Lo stesso tipo di approccio che Mertoğlu applica anche nella messa in quadro: secca, essenziale e molto rigorosa; tutti segnali di una forte maturità stilistica e di una conoscenza acquisita del linguaggio cinematografico da parte del regista, che al giorno d’oggi sono merce sempre più rara tra gli esordienti.  In più, la predilezione per i tempi lunghi e i quadri fissi aumenta in maniera esponenziale la sensazione di disagio provata dallo spettatore, costretto a fare i conti con un’opera che lascia il segno.

Francesco Del Grosso

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