Con la mano sul volto
Quella mano buttata lì a coprire il volto. Quasi pudica. Ma in fondo rivelatrice di una profonda ironia: Brendan Gleeson, attore semplicemente immenso che abbiamo amato in molteplici occasioni, ma che qui e nel crepuscolare, grottesco noir In Bruges di Martin McDonagh ha sfiorato probabilmente il sublime, è riuscito a rendere ancora più iconica la sua apparizione nei panni di Martin Cahill, in uno dei tanti capolavori sfornati da John Boorman, affidandosi anche a una semplice mano poggiata sul volto e a quegli occhi vispi, che un po’ si sottraggono al giudizio, un po’ si ostinano a sbirciare beffardamente la realtà circostante. Ossia il peculiare modo del personaggio di giocare a nascondino con giudici, polizia, giurie e giornalisti.
Martin Cahill, noto per l’appunto come “The General”, era stato negli anni ’80 un curioso caso di criminale sui generis, noto per l’audacia dei colpi messi a segno a Dublino e dintorni, ma capace anche di trasformarsi in eroe popolare agli occhi di chi ne amava i continui atteggiamenti di sfida verso le istituzioni, come anche verso quel potere non ufficiale, ma per certi versi persino più rispettato e autorevole, rappresentato in Irlanda dai vertici dell’IRA. Sarà proprio la sua sfrontatezza verso questi ultimi a causarne la repentina e violenta caduta.
Il suo assassinio avvenne il 18 agosto 1994. E il giornalista Paul Williams gli aveva già dedicato un libro importante, quando nel 1998 un autore del calibro di John Boorman volle costruirgli intorno questo folgorante biopic, accolto tra l’altro a Cannes, lo stesso anno, con il premio per la Miglior Regia. Ed è in effetti un taglio registico sorprendente e di gran classe quello conferito al film da John Boorman, inglese di nascita ma residente in Irlanda, nella contea di Wicklow, da quasi quarant’anni. Figura fondamentale, quindi, per lo sviluppo stesso della cinematografia irlandese.
Di conseguenza è stato un piacere incredibile rivedere (e ripensare) un film come The General direttamente sul grande schermo, grazie alla volontà dello staff dell’Irish Film Festa di inserirlo, praticamente per il suo ventennale, nella sezione “Irish Classic” di una decima edizione del festival rivelatasi tanto valida e ricca. Un “classico”, del resto, The General lo si può tranquillamente considerare, ben al di là della forse inadeguata recezione critica avuta in Italia. Cesellato in un bianco e nero da antologia, questo atipico crime movie riesce nel piccolo miracolo di rapportare una parabola esistenziale “bigger than life” tanto alla mitologia popolare che a un determinato contesto sociale, tanto alla costante ironia dello sguardo cinematografico che a un senso di plumbea fatalità. Fattore, quest’ultimo, che rifulge particolarmente nell’elegante struttura ad anello, in cui il triste epilogo dello sfacciato e controverso eroe/criminale va a incastonarsi. Per il resto, della prestazione maiuscola di Brendan Gleeson si è già detto, ma vale la pena rimarcare la presenza nel cast di altri interpreti sopraffini come Adrian Dunbar, Sean McGinley, Angeline Ball e soprattutto Jon Voight, fiero antagonista in divisa. L’analisi di un simile testo filmico richiederebbe molto più tempo. E non potrebbe quindi esulare da più dettagliate, opportune considerazioni sullo splendido e calibrato utilizzo della colonna sonora, sull’accorta rappresentazione dei diversi spazi e ambienti sociali attraversati dal protagonista, sull’incisività del montaggio nel dare ritmo alla narrazione. Ci limiteremo invece a un’osservazione più generale: se in altri suoi capolavori (Un tranquillo week-end di paura, Zardoz, Excalibur) Boorman ha reso indubbiamente più esplicita l’asprezza del confronto dialettico tra Uomo e Natura, qualcosa di simile può essere ravvisato anche in The General. Qui l’aspetto più ordinato e gerarchizzato della società umana, nella fattispecie della cultura irlandese, deve infatti fare i conti con l’irrompere di un elemento maggiormente istintivo, libero, irrazionale, in grado perciò di farne saltare temporaneamente gli schemi. Martin Cahill, “genius loci” di una Dublino proletaria che rifiuta orgogliosamente di farsi mettere a regime.
Stefano Coccia