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A United Kingdom

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VOTO: 4.5

Che pasticcio, signora Asante!

Di black movies su cui molte case di produzione hanno puntato, quest’anno ne abbiamo già quanto basta: dalla risposta nera a David W. Griffith, The Birth of a Nation, appunto – diretto da Nate Parker – fino all’acclamato (ingiustificatamente?) Moonlight, di Barry Jenkins. Le grandi major, però, a quanto pare hanno deciso, per quest’anno, di non fermarsi qui. Con l’intento di allietare i nostri animi con un bel polpettone romantico, infatti, ha visto la luce un prodotto che può definirsi, in realtà, black solo per metà e che, con la giustificazione di mettere in scena una storia realmente accaduta, ha fatto sì che illustri nomi fossero chiamati a raccolta durante la propria realizzazione. Stiamo parlando di A United Kingdom – L’amore che ha cambiato la storia, diretto dalla regista ed attrice Amma Asante e che vede tra i protagonisti nomi del calibro di David Oyelowo e Rosamund Pike.
La storia in sé – soprattutto perché rappresentante fatti realmente accaduti – sarebbe anche interessante: Seretse Khama, erede al trono del Botswana, incontra, durante un viaggio a Londra, la giovane dattilografa Ruth Williams. I due si innamorano e decidono di sposarsi. Il problema è che, nel 1947, il matrimonio tra una persona bianca ed una di colore è ancora tabù. La situazione si fa ancor più grave se ci si mettono in mezzo addirittura il governo britannico e quello sudafricano, dal momento, appunto, che uno dei due congiunti è anche un’importante personalità politica. I due sposi, tuttavia, non si stancheranno mai di combattere per il loro amore; e la loro unione, col passare del tempo, porterà anche a numerosi progressi per quanto riguarda i diritti delle donne e la politica del Botswana stesso.
D’accordo, ad una prima lettura la storia può apparire interessante, come già è stato detto. Peccato che A United Kingdom nasca con intenti dichiaratamente populistici e che, se paragonato ai due black movies precedentemente citati, più che peccare di cadute di stile ed autoreferenzialità (come i primi due, di fatto), a causa della propria realizzazione da un punto di vista prettamente tecnico finisce inesorabilmente per diventare quasi lo stereotipo di sé stesso. A tal proposito, forse l’elemento che maggiormente contribuisce a conferire al prodotto tali caratteristiche è proprio la musica. Si tratta di una colonna sonora tronfia, autocelebrativa, pronta a partire ogniqualvolta uno dei personaggi faccia un discorso al fine di affermare i propri diritti o la propria identità. L’utilizzo abusato della suddetta musica, come prevedibile, non manca, talvolta, di creare anche qualche momento involontariamente comico, come, ad esempio, quando la sorella di Seretse Khama – per rispondere alla moglie di un diplomatico inglese che l’aveva accusata di superbia – afferma di essere imparentata con il futuro erede al trono. Momento, questo, che fa sorridere quasi quanto la scena che vede Ruth – appena diventata madre – affermare di aver tirato uno schiaffo alla figlioletta al fine di far sentire il suo pianto al padre dall’altro capo del telefono.
Ma la carrellata di scivoloni, ovviamente, non finisce qui. Volendo sorvolare, di fatto, sulle numerose forzature presenti già a livello di scrittura – come il cambiamento repentino dell’atteggiamento della sorella di Seretse nei confronti della cognata, ad esempio – o sui personaggi di alcuni diplomatici inglesi rappresentati quasi alla stregua di macchiette, non possiamo non riconoscere che anche gli stessi interpreti principali – che più e più volte hanno dato prova del loro talento – non sono stati, nell’occasione, diretti come si deve. Il discorso vale, in particolare, per la povera Rosamund Pike, che – bisogna tristemente riconoscerlo – ha assunto la stessa espressione per ¾ del film.
Ala luce di quanto detto, qual è il risultato finale? Malgrado il potenziale iniziale, A United Kingdom è, purtroppo, un prodotto malriuscito, del quale – già poche settimane dopo la propria permanenza in palinsesto – non resterà praticamente alcuna traccia. Triste ma vero.

Marina Pavido

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