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A Sister

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VOTO: 8

La strada della paura

Una notte. Un’automobile. Una donna nei guai. Una telefonata. Sono questi i quattro ingredienti principali alla base della ricetta narrativa e drammaturgica di A Sister, il cortometraggio scritto e diretto da Delphine Girard, fresco vincitore del premio per il miglior film internazionale al 37° Sulmona International Film Festival, laddove è stato presentato in anteprima italiana dopo le precedenti apparizioni in prestigiose kermesse tra cui Palm Springs e Locarno.
Tanto o poco sta al singolo spettatore giudicare, ma per quanto ci riguarda sufficienti a garantire alla seconda produzione breve firmata dalla cineasta canadese di adozione belga il necessario per portare sullo schermo un racconto al cardiopalma, quello dell’odissea sulle quattro ruote di una donna che, prigioniera del suo aguzzino, trova dall’altro capo del telefono l’aiuto delle forze dell’ordine. Fingendo di parlare con la sorella che le sta tendendo il figlio, al fine di organizzare gli impegni del giorno successivo, la protagonista è in realtà in contatto con un’agente che, reggendo il gioco, tenta di aiutarla provando a localizzare la chiamata per fare intervenire una pattuglia così da liberarla dal sequestratore al volante e in evidente stato di alterazione.
Il plot chiama in causa tutta una serie di riferimenti più o meno evidenti a pellicole del passato: da The Hitcher a Collateral, da Phone Booth a Locke, da Cellular ai cortometraggi L’ora del buio e Mother, sino a The Guilty. Ed è con quest’ultimo, implacabile thriller telefonico messo in scena in tempo reale da Gustav Möller, che la pellicola della Girard ha un filo diretto fatto di analogie. Proprio questo filo diretto, mescolato con le assonante che lo avvicinano ad alcune dinamiche già viste nei suddetti film, genera nella mente dello spettatore una catena di déjà-vu che, pur diminuendo il fattore sorpresa, non toglie suspence al racconto. L’accumulo e la sapiente costruzione della tensione consegnano alla platea un sali e scendi febbrile nel termometro, del quale la recitazione dei tre protagonisti si fa veicolo principale. Limitato nell’interpretazione corporea dai spazi ristretti messi a disposizione (la scrivania di un ufficio di una centrale di polizia e la macchina a bordo della quale viaggiano la donna e il suo sequestratore), il cast trasforma il fittissimo botta e risposta tra le parti in gioco nella benzina che alimenta il motore.
Da qui nasce un palleggio insistito e ben orchestrato che si consuma interamente a distanza, con uno scambio di campi controcampi dal ritmo serrato tra la soccorritrice e la donna tenuta in ostaggio su una macchina lanciata a tutta velocità nella notte. Esattamente il contrario di quello che accade invece in The Guilty, dove di colui che è dall’altra parte della cornetta sentiamo solo la voce. Il risultato è una corsa contro il tempo da vivere in apnea e che non lascia nemmeno un secondo per riprendere fiato. Il tutto attraverso un mix cangiante di emozioni, dove l’angoscia la fa da padrona.

Francesco Del Grosso

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