Ne resterà uno solo
E alla fine il Van si ferma, le porte si aprono e Ben esce vivo. Ancora qualche rissa e sarà in grado di uscire dall’Albania e, si spera, di portare suo padre con sé. Un iter, questo, che si ripete continuamente nella quotidianità di un ragazzo costretto a battersi in combattimenti clandestini senza regole di ingaggio, dove chi rimane in piedi e non soccombe sotto i colpi dell’avversario di turno porta a casa la pelle e la posta in gioco. Il ring dove questa lotta per la sopravvivenza va in scena è il retro di un camion in movimento, ma anche la vita di tutti i giorni che non fa sconti a nessuno. Ed è su questo doloroso trascinarsi del protagonista tra cantieri, strade e scontri mortali su un camion che si consuma la timeline di The Van, il cortometraggio scritto e diretto da Erenik Beqiri che, dopo un fortunato tour festivaliero iniziato lo scorso maggio nella competizione di categoria di Cannes 2019, si è aggiudicato il premio per la migliore regia alla 37esima edizione del Sulmona International Film Festival.
Quello del cineasta albanese è un dramma umano che non lascia indifferente lo spettatore, al contrario lo aggredisce con una serie di pugni ben assestati alla bocca dello stomaco e al volto da togliere il fiato. Gli stessi che si abbattono sul protagonista e con i quali prova a sua volta ad affrontare la vita in cerca di una seconda chance per sé e per suo padre, lontano da una terra ostile e priva di speranza. Lo scontro fisico fuori e dentro un ring fuori norma si trasforma di fatto in una metafora, portatrice di temi e problematiche universali che si affacciano sullo schermo senza filtri. The Van è un tragico affresco sulla crisi imperante e sulla brutalità, che vede l’essere umano regredire per riuscire a ritagliarsi la possibilità di tirarsi fuori dalle sabbie mobili della violenza e della povertà.
Beqiri disegna con grande realismo un ritratto fatto di sangue, lividi e sofferenza. Per farlo si avvale di una camera a spalla “sporca” e di un mascherino 4:3 che pone il personaggio principale costantemente al centro del fotogramma. La cinepresa resta attaccata a Ben, mostrandone il corpo e il volto via via sempre più segnato e deturpato dai colpi pesanti ricevuti nel corso dei match, ultimo dei quali gli riserverà il più difficile degli avversari. Il risultato è un’opera che richiama la dolente fisicità di Un sapore di ruggine e ossa, ma che riesce a raggiungere un livello di coinvolgimento leggermente superiore da un punto di vista empatico. Merito della regia scarnificata e di una messa in scena cruda e diretta, che trova nell’interpretazione del promettente Phénix Brossard (già visto e apprezzato in Benjamin di Simon Amstell) il giusto terminale.
Francesco Del Grosso