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1981: Indagine a New York

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VOTO: 8

Nella società corrotta

A dispetto di quanto suggerito dal titolo, in A Most Violent Year di violenza fisica mostrata ed esibita non è che ce ne sia poi molta. Ciò che al regista/sceneggiatore J.C. Chandor interessava far emergere era tutt’altro: esplicitare la corruzione morale come irrefrenabile veicolo di contagio sociale. A quel punto anche la stessa violenza, sorta di riflesso pavloviano del tutto fuori controllo, viene spontaneamente riportata alla sua esatta dimensione: quella di una reazione, conseguenza non logica ma prevedibile, di una infinita serie di comportamenti inaccettabili da un ipotetico punto di vista etico.
Presentato in anteprima italiana dal sempre munifico programma del XXV Noir in Festival di Courmayeur, A Most Violent Year (nella versione italiana il titolo, abbastanza fuori contesto, sarà 1981: Indagine a New York) sposta indietro le lancette del tempo al secolo scorso. Siamo a New York, appunto nell’anno di (poca) grazia 1981. La criminalità dilaga, sotto gli occhi complici delle istituzioni. Un giovane immigrato centroamericano, Abel Morales, tenta la sua personale scalata al Sogno Americano, attraverso l’espansione di una ditta per l’estrazione e il trasporto di idrocarburi liquidi. Lo affianca la bella moglie Anna, discendente di una famiglia invischiata con organizzazioni mafiose. I predatori sono in agguato e i camion di Morales subiscono un numero impressionante di furti. O ci si adegua, oppure si abbandona il campo.
Il terzo lungometraggio di J.C. Chandor poggia su una serie di opposte contraddizioni magistralmente studiate a tavolino. Girato con un occhio estetico al noir d’azione degli anni settanta, con modello ispiratore il William Friedkin de Il braccio violento della legge (1971), ne prende in eredità il carico morale, mischiando però modernamente le carte ed evitando qualsiasi tentazione manichea di separazione tra buoni e cattivi. L’ambiguità regna sovrana soprattutto nella descrizione, accuratissima, dei vari personaggi. Ognuno mosso da ragioni magari comprensibili ma allo stesso tempo esecrabili. Abel Morales – cui presta il volto da uomo qualunque un perfetto Oscar Isaac – cerca disperatamente la strada per il successo ma possiede un suo preciso codice comportamentale, per cui si nega l’uso delle armi da fuoco persino come deterrente nei confronti dei malintenzionati. Nell’esemplare finale, ovviamente da non rivelare, comprenderà appieno che il vero Potere non si esercita attraverso il possesso di una pistola ma tramite il carisma scaturito dall’autorevolezza della parola. Sua moglie Anna – la sempre straordinaria, poliedrica Jessica Chastain – per retaggio famigliare avvezza alla violenza più materiale, difende con le unghie e con i denti il concetto stesso di famiglia ideale; quella a cui la sua, per una serie di ovvi motivi, non è per nulla assimilabile. Il loro rapporto di coppia, tra continui scambi di ruolo “in comando”, troverà forse un perfetto equilibrio quando entrambi sapranno accettare le rispettive nature. Più vicine di quanto essi stessi credessero. Attorno a loro orbita una variegata galassia di gente a dir poco equivoca: procuratori in apparenza integerrimi ma in realtà assai disposti al compromesso, imprenditori in abiti eleganti a dissimulare una natura intrinseca di stampo gangsteristico. Una sorta di cloaca a cielo aperto dove i pericoli si annidano ad ogni angolo di possibile svolta e chi non è temprato può solo soccombere in malo modo.
J.C. Chandor, artefice finora di un pugno di opere in cui la bontà dello script è prevalsa abbastanza nettamente sull’aspetto visivo, dopo aver analizzato causa ed effetto della crisi economica su un manipolo di persone pronte anche alla metamorfosi genetica in nome della ricchezza (Margin Call, 2011) ed aver isolato l’essenza dell’individuo nell’aspro contatto con la Natura (All is Lost – Tutto è perduto, 2013), continua nel suo discorso umanista sulla inevitabilità di adeguarsi al determinato contesto di appartenenza. Un “habitat” che si può scegliere, vivere ma stando ben attenti a non subirlo. In questo senso il discorso sul passato di A Most Violent Year riverbera i suoi accecanti riflessi anche sul presente. Facendo di quello che sembra, ad un primo sguardo, solo un oggetto cinematografico di modernariato filologicamente irreprensibile, un vero e proprio trattato filosofico sulla natura umana – persino suscettibile di una lettura politica oscillante da destra a sinistra – valido per ogni stagione a venire. Compresi, purtroppo, gli anni “più violenti” che sopraggiungeranno ancora e ancora in qualsiasi angolo del mondo.

Daniele De Angelis

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