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A Good Man

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VOTO: 7.5

Il mammo

A Good Man fa parte di quella nutrita schiera di titoli che hanno potuto fregiarsi della prestigiosa palmetta di Cannes, poiché rientrati nella selezione ufficiale della 73esima edizione, ma che a causa delle nefaste cronache pandemiche non hanno potuto debuttare sugli schermi della kermesse francese e sfilare con le rispettive delegazioni sul tappeto rosso della Croisette. Una gioia vissuta solo a metà per chi come Marie-Castille Mention-Schaar, regista e sceneggiatrice della pellicola in questione, non ha potuto come altri colleghi e colleghe provare sulla propria pelle il brivido di un’esperienza professionalmente importante come questa. Ma la vita va avanti e così il cammino distributivo di un film. Nel caso della pellicola della cineasta francese il percorso non si è fermato e ha fatto tappa in altre importanti manifestazioni alle diverse latitudini tra cui il Festival del Cinema Europeo di Lecce, dove nel corso della 22esima edizione si è aggiudicato due riconoscimenti: il Premio Speciale della Giuria e quello FIPRESCI.
Ed è proprio sugli schermi salentini che abbiamo potuto vedere e apprezzare la sesta fatica dietro la macchina da presa della Mention-Schaar che, prendendo spunto da fatti realmente accaduti, racconta la storia di Benjamin e Aude. Il primo è un infermiere, mentre la seconda dà lezioni di danza in Bretagna, sull’isola di Groix, dove si stanno godendo la nuova vita dopo aver lasciato Aix-en-Provence. Sei anni d’amore li legano fortemente dal loro primo incontro in una discoteca, sei anni di lotta prima che Benjamin ottenga finalmente l’identità legale maschile, verso la quale sta progressivamente trasformando il suo corpo. Ma il desiderio di un bambino sconvolge completamente il loro equilibrio e li costringe a provare a ridefinire il loro posto e il loro rapporto con il mondo.
Basato su una storia realmente accaduta, il film affronta con coraggio, credibilità e senza cliché argomenti sensibili come la questione dei generi, dei ruoli e delle identità. Temi, questi, scivolosi e troppo spesso abusati, sui quali in molti si sono pronunciati in maniera superficiale o scavando pochissimo in profondità come nel caso di Viola di mare. Approccio che per fortuna non appartiene al cinema della regista francese, che in passato ha già dimostrato di sapersi confrontare con tematiche dal peso specifico non indifferente, che avrebbero fatto tremare i polsi a molti altri colleghi: dalla trasmissione alle giovani generazioni delle atrocità del sistema dei campi di concentramento nazisti in Les héritiers, alla radicalizzazione islamista delle adolescenti occidentali in Le ciel attendra. Qui, come in A Good Man, la scrittura si fa portatrice sana di sobrietà e delicatezza, con un’attenzione alle emozioni, agli stati d’animo dei personaggi e alla vasta gamma di sfumature che una vicenda così complessa ha in dotazione. Elementi portati in dote dallo sceneggiatore Christian Sonderegger, che sulla materia in questione aveva già avuto modo di lavorare nel documentario da lui diretto dal titolo Coby, nel quale ha raccontato la storia del fratellastro trans.
Ciò ha consegnato alla Mention-Schaar una base solida, anche strutturalmente (racconto non lineare sviluppato su piani temporali diversi che si intrecciano in maniera efficace come nella scena della discoteca), sulla quale costruire una messa in quadro funzionale al racconto e al completo servizio dei personaggi che lo animano, capace di ritagliarsi momenti di poesia che contribuiscono ad alzare il livello di coinvolgimento dello spettatore di turno. Coinvolgimento che resta alto dal primo all’ultimo fotogramma utile (vedi il toccante epilogo) grazie alle intense e vere interpretazioni delle due protagoniste, le bravissime Noémie Merlant (Benjamin/Sarah) e Soko (Aude), alle quali la regista si affida per riempire ulteriormente le scene e caricarle di emozioni cangianti. Sono loro l’altro valore aggiunto di un film che sa come suonare le corde del cuore, pizzicandole con decisione o accarezzandole con dolcezza.

Francesco Del Grosso

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