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Quel che conta è il pensiero

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VOTO: 7.5

Nel “post-morettismo”

Il destino di ogni generazione è, inevitabilmente, quello di arrivare dopo qualcosa d’altro. In qualche modo costretti a cercare una propria identità attraverso percorsi già tracciati da altri. Per tale motivo il passato acquisisce le forme di una luminosa chimera, il più delle volte irraggiungibile da ogni punto di vista possibile, sia esso politico, sociale e artistico. Venendo al discorso cinematografico dovrebbero essere tutti concordi, in primis anche i detrattori, sull’affermazione che in Italia è esistito un prima ed un dopo Nanni Moretti. Non solamente il regista nativo di Brunico è stato capace di imporre in brevissimo tempo una nuova poetica del tutto personale, ma anche sdoganato ad alti livelli un modus operandi rimasto sino ad allora in uno stato embrionale: quello del cinema completamente autarchico, frutto esclusivo delle idee di una singola persona. Paradossalmente, più di ogni altra istanza apportata da questa inedita corrente, la carta vincente è risultata essere proprio la singolarità dell’individuo, sottolineata sino al punto di non ritorno. La condanna alla unicità e conseguente diversità di pensiero. Con effetti comici imprevedibili anche agli occhi dello stesso Moretti, convinto di aver realizzato, nelle sue prime pellicole come Io sono un autarchico (1976) ed Ecce Bombo (1978) opere di intensa drammaticità ed invece percepite dal pubblico alla stregua di commedie, sia pur sui generis.
Non dovrebbe affatto stupire, allora, che un tale, imprevisto, successo abbia generato, nel corso dei decenni, frotte di imitazioni, figli e figliastri mai in grado di raggiungere l’altissimo grado di causticità e brillantezza del “morettismo” originale. Verrebbe allora spontaneo aggiungere a tale, corposa, lista anche l’esordiente Luca Zambianchi, regista, sceneggiatore e protagonista di Quel che conta è il pensiero. Un lungometraggio morettiano sino al midollo, omaggiante il maestro sin quasi a generare qualche sospetto di scaltra imitazione. Basti pensare che il personaggio principale del film, appunto interpretato dallo stesso Zambianchi, si chiama Giovanni (nome di battesimo di Nanni Moretti) e per di più, studente di medicina insoddisfatto, vagheggia di allestire un ironico spettacolo teatrale su una lavanderia dove si discetta di Freud e psicologia, con richiamo assai più che evidente al Sogni d’oro diretto da Moretti nel 1981, con annesso film nel film incentrato sulla figura del vate della psicoanalisi.
Le cose, come sovente accade, non sono invece come sembrano apparire. Quel che conta è il pensiero non punta alla banale imitazione, peraltro impossibile da attuare, ma ad un semplice aggiornamento su come potrebbe essere cambiata la gioventù 2.2 rispetto a quella di oltre quarant’anni addietro. E risulta oltremodo sorprendente ritrovare, se non la medesima qualità di situazioni e battute, la stessa sincerità nel ritrarre una generazione variegata eppure sempre prigioniera, non solamente nella figura del protagonista, di un’afasia prima ancora intellettuale che, di conseguenza, sociale e sentimentale. Come suggerisce anche il titolo, deliziosamente ironico nonché velatamente critico nei confronti del personaggio principale, Giovanni si sente incompreso, ostaggio di un piccolo universo che non è affatto sintonizzato sulla sua lunghezza d’onda. Le sue velleità artistiche vengono frustrate dalla “burocrazia” di un sistema che non prevede fughe in avanti di alcun tipo. Mentre la voglia di rimettersi in gioco da un punto di vista sentimentale, dopo una relazione terminata in modalità assai curiose, si scontra con il timore incontrollabile di non riuscire a trovare un’anima gemella causa mancata esistenza della stessa. Una serie di piccoli drammi esistenziali che, parimenti al cinema di Moretti, suscitano in misura maggiore tra gli spettatori sorrisi complici molto spontanei, piuttosto che ricercata commiserazione. Ciò accade perché Zambianchi, attraverso un’acuta lettura dell’ambiente che circonda Giovanni, riesce senza fatica a stimolare empatia nei confronti di un personaggio così diverso da tutti gli altri – il suo migliore amico, ad esempio, è un seduttore indefesso – eppure afflitto da problematiche per nulla estranee a coloro che guarderanno il film. Un lungometraggio che segnaliamo più che volentieri all’attenzione dei nostri lettori, poiché il suo autore, Luca Zambianchi, prova davvero a dare forma cinematografica, attraverso una messa in scena essenziale al punto giusto ma mai “povera” di idee, ad una ricerca di senso compiuto laddove logica e significati profondi latitano pericolosamente.
Il primo passo è stato fatto; ora il compito è quello di non ripetersi all’infinito, tentando di catturare ogni volta nuove sfumature di una realtà senza fine.

Daniele De Angelis

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