Il canto degli ultimi
Cosa nascerebbe dall’incontro tra un fotoreporter di guerra e una cantautrice? La risposta è un documentario di straordinaria intensità e struggente lirismo tutto da vedere e in primis da ascoltare. Si tratta di A Dog Called Money, la testimonianza audiovisiva del processo creativo che sottende alla realizzazione dell’ultimo disco di Polly Jean Harvey dal titolo “The Hope Six Demolition Project”. Il film si sviluppa nell’arco di un intenso viaggio intrapreso dal fotografo Seamus Murphy (qui in veste di regista) e dalla cantautrice britannica, un percorso che li ha visti insieme attraversare l’Afghanistan, il Kosovo, la Siria, il quartiere ghetto di Washington DC e il confine martoriato tra Grecia e Macedonia, territori già immortalati in precedenza per la realizzazione della raccolta di foto e poesie intitolata “The Hollow of the Hand” (2015). Alle immagini riprese per strada, nel caos del mondo, si alternano quelle catturate durante le fasi di registrazione dell’album, alla Somerset House di Londra. In un esperimento artistico con pochi precedenti, chiusi in una stanza dalle pareti in vetro e sotto lo sguardo curioso del pubblico, la cantautrice di culto e la sua band si sono lasciati osservare e riprendere per cinque settimane agli inizi del 2015, dando vita a un coinvolgente documento che abbraccia sia la sfera individuale dell’artista che quella civile e universale.
Prossimamente nelle sale nostrane con Wanted Cinema dopo l’anteprima nella sezione “Panorama” della 69esima Berlinale e una prima apparizione pubblica in territorio italiano nel fuori concorso del Filmmaker Festival 2019, A Dog Called Money è un tour musicale, fisico, cinetico ed emozionale all’interno di un processo creativo attraverso i luoghi che lo hanno ispirato. La mente torna per assonanze a Heima di Dean DeBlois sui Sigur Rós, You & I sull’album postumo di di Jeff Buckley, U2: From the Sky Down di Davis Guggenheim o a Cobain: Montage of Heck di Brett Morgen, simili nell’impianto e nel concept al film del fotografo e regista irlandese. La loro natura è, però, più focalizzata sull’aspetto biografico e artistico, mentre il documentario di Murphy oltre a quello performativo allarga il proprio orizzonte narrativo all’altra faccia del percorso creativo, quello Questi due elementi si fondono alla perfezione nel DNA di un’opera che, attraverso un efficacissimo e insistito palleggio spazio-temporale tra il dentro e il fuori dallo studio di incisione, esplora a 360° una lavorazione itinerante e corale capace di abbattere i confini geografici e socio-politici.
La forza del documentario sta proprio nella capacità dell’autore di documentare attraverso la pura osservazione e senza interviste frontali l’esperimento, facendolo con la stessa visione scientifica e l’approccio al privato che utilizza durante i suoi viaggi. E nel mentre cattura l’immediatezza degli incontri con le persone e i luoghi visitati, laddove la Harvey ha visto con i propri occhi, raccolto suoni e composizioni (gospel, rap, canti religiosi e preghiere), annotato sui suoi quaderni parole, eventi e riflessioni, destinati a diventare le fonti e la materia prima dei testi e delle basi dei brani del suddetto disco. Determinante ai fini dell’armoniosa fusione si è rivelato il montaggio di Sebastian Gollek, capace di dare una scorrevolezza e una continuità ai materiali filmati dallo stesso Murphy durante un pedinamento costante della musicista a compositrice britannica in terre ostili o segnate dai conflitti di ieri e di oggi. La preziosa fase di editing ha permesso a A Dog Called Moneydi prendere forma e sostanza, prestandosi come collante di un indimenticabile metamorfosi che coinvolge tanto la musica quanto il cinema.
Francesco Del Grosso