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Cobain: Montage of Heck

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VOTO: 8.5

Tormenti ed estasi

Passano gli anni e più si moltiplicano i biopic dedicati a figure celebri del panorama musicale internazionale, che con il rispettivo apporto sono riusciti ad alzarne il prestigio e la grandezza, entrando di diritto nella storia di un’Arte che hanno di fatto contribuito a fare crescere. Molti se ne sono andati per cause naturali o per circostanze drammatiche, molti altri ci hanno voluto lasciare, bruciando troppo in fretta le tappe dell’esistenza, attraverso un percorso di autodistruzione che ci ha privato contemporaneamente della loro presenza e della loro musica. Uno di questi è Kurt Cobain, storico chitarrista e frontman dei Nirvana, morto suicida a 27 anni, al quale Brett Morgen ha reso il migliore degli omaggi possibili nello straordinario Cobain: Montage of Heck.
Reduce dalle ottime accoglienze ottenute alle ultime edizioni del Sundance e della Berlinale, il documentario approderà finalmente nelle sale nostrane in una due giorni voluta dalla Universal (28 e 29 aprile), preceduta dal sold out del Petruzzelli durante la presentazione in quel di Bari lo scorso 21 marzo, nella prima giornata inaugurale del Bif&St 2015. Raramente un’opera di questo tipo è riuscita a penetrare così profondamente nell’anima e nella testa del suo protagonista, restituendone sullo schermo la vera essenza. Il più delle volte si assiste a omaggi di straordinaria efficacia evocativa e impeccabili per ciò che concerne la confezione, come ad esempio Marley di Kevin Macdonald o The Sugar Man del compianto Malik Bendjelloul, rispettivamente incentrate sulle figure di Bob Marley e di Sixto Rodriguez, ma pochissimi hanno avuto la capacità di spingersi oltre il genio e il talento riconosciuti, dando spazio anche e soprattutto al controcampo esistenziale che nella stragrande maggioranza dei casi non è mai tutto rose e fiori. Il grande merito di Morgen, non nuovo al genere (suo l’apprezzato film sui Rolling Stones del 2012, Crossfire Hurricane), sta proprio nell’aver saputo scavare ben al di sotto del mito e della mitologia, raggiungendo le viscere del cuore e della mente dell’uomo prima che dell’artista. Prima di lui c’era riuscito solo Bruce Weber con il folgorante Let’s Get Lost, biografia che il regista americano dedicò all’immenso trombettista Chet Baker nel 1988, a un anno esatto dalla tragica dipartita del famoso jazzista, diventato per moltissimi addetti ai lavori e non solo un autentico cult dell’ormai ricca galleria di ritratti audiovisivi sul mondo della musica e dei suoi più illustri esponenti.
In Cobain: Montage of Heck, Morgen porta sullo schermo i tormenti e le estasi del musicista e cantante di Aberdeen, ricucendo una dopo l’altra le tappe pubbliche e private che ne hanno segnato la breve ma intensa vita. Ne viene fuori un dipinto tridimensionale realizzato con pennellate di grandissimo cinema, che materializza sullo schermo l’identikit caratteriale e la psicologia di Kurt partendo dall’infanzia sino ad arrivare all’indimenticabile performance acustica al MTV Unplugged, passando per gli anni difficili dell’adolescenza e della maturità, i primi passi nella musica e i trionfi con i Nirvana, l’abuso di droga, il matrimonio con Courtney Love e la nascita della figlia Frances Bean (artista visiva e produttrice visiva del film). Il tutto lasciando volutamente fuori, con grande eleganze, rispetto e maestria, gli aspetti morbosi e la cronaca del triste epilogo, al quale invece Gus Van Sant ha voluto fare riferimento per costruire il plot di Last Days di Gus Van Sant. Ciò consente allo spettatore di entrare in contatto con entrambe le facce della medaglia, così da arrivare a conoscere non solo la produzione musicale di Cobain e i tratti più significativi del sua biografia, ma anche tutto quello che si è soliti mettere da parte per restituire alle platee l’immagine del santino di turno. Ma santo, Kurt non lo era di certo e dire il contrario sarebbe stata la più grande delle menzogne. Morgen questo lo ha capito, così come ha dimostrato di aver capito che nel caso del cantante dei Nirvana puntare sul facile preconcetto legato all’artista maledetto, tutto sesso, droga e rock, non sarebbe servito assolutamente a nulla. Il perché e la verità stanno nel mezzo, così l’accettare che l’esistenza di un uomo è fatta di sfumature, non solo di bianco o di nero. La forza di questo documentario è quella di aver messo in quadro le diverse sfumature di Cobain, belle e brutte che siano.
Per farlo, l’autore passa attraverso un “mosaico” visivo e sonoro che non può lasciare indifferenti, frutto di un certosino e complesso lavoro di ricerca e raccolta durato la bellezza di otto lunghissimi anni. Al classico racconto corale fatto di interviste a familiari, amici e affetti, il regista affianca una serie di veicoli narrativi che corrispondono ad altrettante soluzioni estetico-formali, dall’animazione al mash up, passando per i disegni e l’assemblaggio di inediti e preziosissimi materiali di repertorio in super 8 e, fotografici, per di più provenienti dagli armadi di casa Cobain, che Morgen utilizza con grandissima sagacia.

Francesco Del Grosso

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