Crescere nel “regresso”
La maggiore difficoltà nel realizzare un’opera horror pre o post apocalittica oggi sta tutta nel concepire lo scarto tra distopia e realtà. Spaventare o angosciare diviene impresa oltremodo ardua se si guarda a ciò che succede nel mondo, con orrori talmente vicini e reali che nessuna opera di fiction non potrà mai eguagliare. Guerre, stragi e massacri quotidiani hanno assuefatto l’opinione pubblica, ormai insensibile a qualsiasi grido di dolore. Anche questo 28 anni dopo parte dunque zavorrato da tale peso, pur essendo un prodotto a denominazione origine controllata come terzo capitolo di una saga di successo. Nell’ambito della quale bisogna anche constatare il ritorno del binomio Boyle (regista e sceneggiatore) / Garland (solo sceneggiatore), dopo l’intermezzo di 28 settimane dopo, diretto nel 2007 da Juan Carlos Fresnadillo. Prodotto quindi ad altissimo livello, soprattutto di messa in scena: avanguardistica nell’uso del digitale nell’opera originaria, molto classica in questo terzo episodio. Mentre è proprio la sceneggiatura, un po’ a sorpresa, a mostrare alcune criticità.
Al tirar delle somme 28 anni dopo è infatti una sorta di racconto di formazione diviso in due parti, nonché collocato temporalmente circa tre decenni dopo il primo film, cioè 28 giorni dopo. Trent’anni in cui la porzione di umanità che ci viene mostrata è regredita sino ai minimi storici. Confinati in un fortino nelle highlands scozzesi e protetti dal mare, l’adolescente Spike (bravissimo Alfie Williams) e suo padre escono sulla terraferma con il secondo ad addestrare il primo sui pericoli di un mondo dominati dagli infetti (il famigerato virus della rabbia) a propria volta suddivisi in classi sociali. Gli Alfa, ad esempio, così nominati per la loro tendenza a guidare il branco, appaiono fisicamente molto simili ad esseri umani di altra era, a voler confermare un pauroso regresso ormai definitivamente compiuto. Un aspetto “politico” che, stranamente, viene sottolineato poco, specie se consideriamo i film diretti da Alex Garland in prima persona, tipo i volutamente provocatori Men e Civil War. Con quest’ultimo quasi a preconizzare una serie di eventi che si stanno attualmente materializzando negli Stati Uniti.
Più spirituale la seconda escursione di Spike nel mondo esterno, stavolta ad accompagnare la madre malata (Jodie Comer) alla ricerca di un misterioso medico (Ralph Fiennes) che possa essere in grado di assisterla in qualche modo. Incontro che si rivelerà decisivo nel far comprendere al ragazzino gli esatti contorni di un’esistenza contrassegnata da ritualità tribali, dall’una e dall’altra parte. E dove un tumore, magari curabile, diviene ovviamente una condanna a morte per mancanza di apparecchiature per diagnosi e conseguenti cure.
Immaginiamo dunque che, per non deludere i fan della saga, gli autori abbiano voluto privilegiare l’aspetto action (che in effetti compie alla grande il proprio dovere) piuttosto che infilarci istanze socio-politiche evidenti su Brexit e sovranismi vari con relative conseguenze. Eppure si percepisce chiaramente come a 28 anni dopo manchi qualcosa: qualcosa che esuli dalle emozioni epidermiche che pure il film rilascia a volontà. Qualcosa che resti anche dopo la visione.
Un epilogo peraltro sciupato dall’improvvido e sfacciato annuncio di un sequel già girato, sperando di non dover assistere in futuro all’ennesima opera di supereroi camuffata da film di genere. Le banali leggi dello spettacolo, prima o poi, compiono sempre la loro brava vendetta…
Daniele De Angelis