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Un mondo fragile

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VOTO: 8

Fantasmi in Terra

Ci sono film che sommano inquadrature su inquadrature e ampio minutaggio senza nemmeno provare a raccontare nulla di rilevante. Poi arriva, quasi improvvisamente almeno per le omologate abitudini distributive nostrane, un’opera che con poche pennellate di regia ed un pugno di personaggi riesce a far scoprire un mondo fisicamente lontano, che non dovrebbe appartenere allo spettatore occidentale ed invece diventa il suo. Il nostro. Semplicemente perché mette in scena la ciclicità della vita, l’apparente immobilità di contesti atavici e perciò intangibili, ma anche l’eventualità di cortocircuiti esistenziali che conducano a scelte definitive, inevitabili e, per questo, dolorose. Non sorprende affatto, dunque, che Un mondo fragile (La tierra e la sombra, come recita più poeticamente il titolo originale) del giovane cineasta colombiano César Augusto Acevedo abbia vinto la prestigiosa Caméra d’or al Festival di Cannes 2015, cioè il premio riservato alle opere d’esordio: un riconoscimento andato, in tutta evidenza, all’essenzialità di un lungometraggio che riesce a trasfigurare una vicenda famigliare locale nella metafora universale di una parabola sugli umani destini. Riuscendoci peraltro con l’unico mezzo a disposizione, cioè la forza delle immagini cinematografiche.
Siamo in Colombia, in un imprecisato luogo dove dominano le piantagioni di canna da zucchero. Un uomo di una certa età percorre una strada polverosa. A breve si capirà che sta tornando a casa, dalla moglie da cui si è separato parecchi anni addietro ma soprattutto dal figlio gravemente malato, che vive nella fattoria in disarmo assieme appunto alla madre, sua moglie ed il figlio. Il tempo scorre ma nulla cambia; l’uomo entra in punta di piedi in un microcosmo sociale ad evidente impronta matriarcale, dove le due donne quotidianamente escono a guadagnarsi il pane e l’uomo di ritorno deve badare al figlio cardiopatico, nonché al nipote una volta rientrato da scuola. Le scene impostate da Acevedo con un’eleganza che non sconfina mai nel preziosismo formale si soffermano sulle semplici, profonde dinamiche affettive: i vecchi rancori tra coniugi si sopiscono nella preoccupazione per la salute del figlio. Una presenza che è già assenza sin dalle primissime battute, tanto che il personaggio viene mostrato solo sdraiato sul letto o ricoperto da un lenzuolo nelle sue rare sortite all’esterno. Un mondo fragile scava nel profondo di un’elaborazione del lutto tanto inevitabile quanto pregnante, visto che l’ambiente contadino, la classe sociale d’appartenenza non permettono le cure di cui il giovane necessiterebbe. Il regista, dopo averci condotto nel cuore di personaggi splendidamente serviti da un cast in totale adesione al naturalismo richiesto, mette di fronte loro e, di riflesso, gli spettatori di fronte alla fatidica scelta: lasciare il luogo natio per ricominciare altrove oppure restare coerenti sino alla fine e non sfuggire al richiamo delle radici. Una decisione, a ben guardare, che ha riguardato o riguarderà, sia pur in circostanze differenti, ognuno dei coraggiosi e fortunati spettatori del film. Il quale, nella sua ricchezza di punti di vista, è anche un’opera sull’incanto dell’infanzia, sull’istinto primordiale di sopravvivenza e la lotta per la stessa attraverso il lavoro, sul superamento necessario dell’inarrivabile dolore di genitori anziani che vedono morire il loro figlio prematuramente.
E Un mondo fragile ci lascia con un finale sospeso, come naturale in un’esistenza in piena evoluzione: anche dalla cenere generata dagli incendi appiccati nei confronti della natura che ormai non serve più – le canne da zucchero già sfruttate – che ammorba anche simbolicamente l’atmosfera che pervade il film di Acevedo, si può fuggire. Almeno finché a qualsiasi essere umano sarà concesso di rimanere artefice del proprio destino. E basta guardarsi un po’ attorno, a ciò che sta accadendo nel mondo proprio ora, per comprendere appieno quanto questa istanza possa essere di vitale importanza.

Daniele De Angelis

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