C’è chi sale e c’è chi scende
Secondo una nomenclatura ufficiale, un’opera come Above and Below andrebbe sbrigativamente catalogata alla voce documentario. Sulla carta una simile classificazione di default può in parte essere accettata, almeno sino a quando la visione dell’ultima fatica dietro la macchina da presa di Nicolas Steiner, presentata con successo nel concorso della 20esima edizione del Milano Film Festival in anteprima italiana (nel contempo la kermesse lombarda ha dedicato al trentenne regista una piccola rassegna di alcuni suoi lavori), sia chiamata a smentire categoricamente quanto affermato in precedenza. Le due ore circa di timeline sulle quali Steiner ha steso immagini, suoni e parole, ma soprattutto il modo in cui lo ha fatto, servono al pubblico di turno per comprendere quanto approssimativa, superficiale e riduttiva possa essere tale definizione.
Quello scritto e diretto dal giovane talento svizzero, ennesimo enfant prodige partorito dal ventre della cinematografia europea che speriamo non si perda come hanno fatto nel tempo moltissimi promettenti suoi ex colleghi, è si un documentario, ma capace come pochi altri (vedi ad esempio L’ignoto spazio profondo di Herzog) di andare ben oltre il genere di riferimento attraverso un vero e proprio atto di trasfigurazione della realtà in qualcosa di immaginifico, ossia un viaggio dove verità e costruzione si confondono azzerando di fatto la linea che normalmente separa il vero dall’artificio. Per farlo Steiner passa attraverso la deformazione della realtà stessa e uno stile che si fa via via sempre più onirico. Ogni singola inquadratura si fa carico di un significato che va oltre la materialità di una prima lettura oculare, stratificandosi ed evocando suggestioni che alternano bellezza e degrado. E la mante torna a Behemoth di Zhao Liang e a Vivan las antipodas di Victor Kassakovsky. Di questo linguaggio si serve per portare sul grande schermo un tour fisico ed emozionale in quel di Las Vegas, metropoli innumerevoli volte usata dalla Settima Arte come sfondo da raccontare e per raccontare storie. In Above and Below svolge entrambe le funzioni, diventando la “linea di galleggiamento” posta sulla superficie terrestre sopra e sotto (da qui il titolo) la quale si fa largo la macchina da presa, passando da immense distese marziane di terra e roccia a stretti cunicoli e gallerie scavati nel sottosuolo da utilizzare come canali di scolo. Agorafobia e claustrofobia, luce accecante e buio fitto, si impossessano a turno dello spettatore, in uno scambio continuo di testimone che catapulta in un battito di ciglia il fruitore nel bel mezzo di un nulla desertico o nel ventre “malato” di una città. Posti, questi, del quale anche Dio sembra essersi dimenticato.
Lì vivono e sopravvivono le persone delle quali il regista ha deciso di mostrare e narrare le esistenze. Quattro storie di uomini e donne, per altrettante solitudini, che ricordano quelle al centro di Below Sea Level di Rosi o di Louisiana di Minervini. Veri e propri borderline che hanno scelto, o sono stati costretti a scegliere, l’esilio ai margini della Società e di una città che l’immaginario comune ha sempre dipinto e avvolto in una cascata di luci scintillanti. Il margine si fa prospettiva, che a sua volta si fa punto di vista da cui osservare antropologicamente gli eventi, le persone e i mutamenti. C’è molto “altro” ed è su questo che Steiner ha posato il suo sguardo e la lente della cinepresa, per restituire alla platea una visione inedita, per certi versi simile per concezione a quella che Maria Tarantino ha catturato in Our City, ritratto caleidoscopico e dissonante di una Bruxelles (anch’esso presentato in concorso al MFF 2015) vista da dietro le quinte, dagli interstizi.
Above and Below è un’opera che ammalia, che sa come attrarre a sé l’attenzione di colui che la guarda grazie a immagini di straordinaria potenza, supportate da soluzioni visive di altissimo livello (vedi il piano sequenza digitale che nell’ultimo quarto di film collega ciò che c’è sopra a ciò che c’è sotto o il meraviglioso epilogo sulle montagne russe) alle quali contribuiscono in maniera determinante la regia, il montaggio, le musiche e la fotografia. Se non fosse per una prima parte che ci mette moltissimo a carburare in termini di ritmo e di approccio alle storie (forse più immediatezza avrebbe reso il tutto più scorrevole), sicuramente il giudizio finale sarebbe stato ancora più generoso.
Francesco Del Grosso