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Zona d’ombra

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VOTO: 6.5

Testa a testa

Fare un film che racconta una scottante verità, usando i modelli e le formule del cinema d’inchiesta, è già di per sé estremamente complesso, anche se i fatti narrati e i crimini commessi sui quali si prova a fare luce sono il frutto dell’immaginazione degli sceneggiatore di turno. Se poi i fatti e i misfatti portati sul grande schermo dovessero avere più o meno corrispondenze con storie e personaggi realmente accaduti e vissuti, a quel punto il livello di difficoltà diventa per forza di cose più alto. Questo perché le varianti e i fattori di rischio con i quali ci si deve misurare e spesso scontrare sono inevitabilmente maggiori. Di conseguenza, anche il peso specifico dell’opera in questione, le responsabilità nei confronti delle persone coinvolte e i pericoli legati alla scelta di portare nelle sale questa o quell’altra pagina nera,  finiscono con il crescere in maniera esponenziale. Ne sanno qualcosa tutti quei cineasti che negli anni hanno visto le proprie opere cadere sotto i colpi di una critica feroce, ancora più intransigente nei confronti dei film tratti da storie vere, per di più intricate e controverse. In tal senso, lo stillicidio è sempre dietro l’angolo e bisogna tenerlo sempre ben presente ogniqualvolta si vanno a toccare e affrontare certe dinamiche, con tutte le implicazioni politiche, morali e sociali del caso. È inevitabile che gli occhi puntati sulle pellicole che riportano nei primi fotogrammi la dicitura “tratto da una storia vera” siano ancora più esigenti e severi.
A questo sguardo, dunque, non potrà sottrarsi nemmeno Concussion (Zona d’ombra il titolo italiano) di Peter Landesman, cineasta che già tre anni fa con Parkland (in concorso alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e successivamente al Toronto International Film Festival) si era avventurato su quello che si può considerare un vero e proprio campo minato. Il regista statunitense, infatti, si era già misurato con la Storia senza uscirne indenne, maneggiando un materiale davvero ostico, con il quale era facile scottarsi. E così è stato. Partendo dal libro “Reclaiming History: The Assassination of President John F. Kennedy”, scritto dall’ex procuratore Vincent Bugliosi, Landesman ha portato sullo schermo gli eventi che si sono verificati a Dallas il 22 novembre 1963 dopo l’assassinio di John F. Kennedy, focalizzando il racconto sulle ultime ore che seguono la morte del presidente USA al Parkland Memorial Hospital. Il risultato ha lasciato nella bocca di moltissimi addetti ai lavori e non solo l’amaro per ciò che il film avrebbe potuto essere e invece non è stato, in primis per l’incandescente materiale drammaturgico e la base letteraria a disposizione non sfruttati a dovere, poi per il nutrito e versatile cast (dove troviamo tra i tanti Paul Giamatti, Billy Bob Thornton, Ron Livingston e Zac Efron) chiamato in causa e recitativamente abbandonato a se stesso a favore di una confezione decisamente più curata, anche se con una resa fin troppo leccata, più vicina alle esigenze televisive che a quelle cinematografiche.
Con la sua opera seconda, scelta dalla direzione del Bif&st per aprire la settima edizione della kermesse barese, per poi approdare a distanza di una manciata di settimane nelle sale nostrane (21 aprile 2016) con Warner Bros. Entertainment Italia, il regista americano prosegue sulla stessa strada, ossia quella di un cinema che affonda le proprie radice narrative e drammaturgiche nella Storia più o meno recente. Scelta, questa, derivante con molta probabilità dai suoi trascorsi da giornalista per la carta stampata. Con Concussion, Landesman sposta l’attenzione su un’altra vicenda dal peso specifico non indifferente, ossia quella del neuropatologo Bennet Omalu, interpretato da Will Smith, che cercò in ogni modo di portare all’attenzione pubblica una sua importante scoperta: una malattia degenerativa del cervello che colpiva i giocatori di football vittime di ripetuti colpi subiti alla testa. Durante la sua ostinata ricerca, il medico tentò di smantellare lo status quo dell’ambiente sportivo, che per interessi politici ed economici, metteva consapevolmente a repentaglio la salute degli atleti. La pellicola mette da parte l’epica sportiva tanto cara al cinema a stelle e non solo per mostrare il lato B, quello più sporco e scomodo da trattare, per di più di uno degli sport più popolari e sacri negli Stati Uniti, ossia il football, intorno al quale gravitano interessi economici giganteschi che muovono dollari a palate. Per cui, nel momento in cui decidi di mostrare questo lato, un po’ come aveva fatto Oliver Stone in Ogni maledetta domenica, automaticamente il risultato non può che essere uno scontro tra Davide e Golia, dove il primo è un piccolo tassello della Società e il secondo una corporazione difficile da abbattere.
Il regista statunitense si porta dietro alcune mancanze riscontrate nell’esperienza precedente, mentre altre sembrano in parte colmate. Questo gli permette di fare un passo in avanti, seppur minimo, ma che consente al suo nuovo film di raggiungere quantomeno la sufficienza. Se la confezione resta ancora classica, priva di soluzioni registiche e fotografiche che giustifichino la fruizione cinematografica, al contrario troviamo la componente attoriale e la scrittura meno artificiosa. Smith non firma la sua interpretazione migliore, ma dona al personaggio la giusta umanità e una buona dose di intensità, quanto basta per offrire alla platea momenti emozionanti (uno su tutti lo scontro verbale tra Omalu e il dottor Maroon alla vigilia della convention annuale organizzata dalla Commissione della NFL per la sicurezza) e per portarsi a casa una nomination ai Golden Globe per il miglior attore drammatico.

Francesco Del Grosso

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