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Wonder

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VOTO: 6.5

Diversità nell’uguaglianza

Inutile cercare riferimenti illustri con il cinema del passato; perché Wonder, trattandosi di cinema hollywoodiano per famiglie, non può essere accostato né al sommamente poetico e straziante The Elephant Man (1980) di David Lynch e nemmeno all’indipendente, realistico – nonché più vicino anche per motivi “anagrafici” nei confronti del personaggio principale – Mask – Dietro la maschera (1985) di Peter Bogdanovich. Il tratto che accomuna tali film è la menomazione fisica, soprattutto facciale, del protagonista. Nel caso di Wonder, materia ancor più delicata, trattasi di un bambino di dieci anni affetto da malformazione sin dalla nascita alle prese con un tanto difficoltoso quanto delicato inserimento sociale nella comunità scolastica.
Dalle premesse narrative appare chiaro come il film diretto da Stephen Chbosky corra costantemente il rischio di superare la classica linea di demarcazione che divide un racconto cinematografico equilibrato rispetto ad una ricattatoria macchina fabbricata ad arte per spremere lacrime. Se Wonder non cade nella trappola è tutto merito di una costruzione narrativa intelligente, capace di privilegiare i dettagli piuttosto che focalizzarsi unicamente sul bambino protagonista. Molti dei personaggi cosiddetti di contorno hanno nell’occasione l’opportunità di esprimere il loro punto di vista, dando vita ad un organico puzzle che riassume bene l’assunto principale del film: ogni persona, a prescindere dal proprio aspetto fisico, è alla ricerca di un contesto sociale nel quale potersi sentire a proprio agio in modo da realizzare se stessa. Nondimeno Wonder presenta le ovvie prevedibilità del prodotto destinato ad un largo consumo, a differenza del lavoro precedente di Chbosky, quel Noi siamo infinito (2012) che lo sceneggiatore/regista trasse peraltro da un suo romanzo di successo. Se la sensibilità del tocco rimane pressappoco la medesima, a cambiare in modo abbastanza evidente sono gli obiettivi finali. Nel ritratto adolescenziale di un lustro orsono le difficoltà di inserimento venivano espresse in tutto il loro doloroso processo, nell’ambito di un cammino atto a ridefinire il concetto di se stessi; In Wonder, tratto al contrario da un testo altrui (il best seller omonimo di R. J. Palacio) appare tutto un po’ troppo pianificato a tavolino, con ostacoli di routine disseminati nel corso del coming of age del piccolo Auggie – questo il nome del piccolo personaggio, ottimamente interpretato, anche sotto trucco pesante, da un Jacob Tremblay ormai da considerare alla stregua di una star – ed un’eccessiva esaltazione dello stesso come catalizzatore di buoni sentimenti ed etica di comportamento soprattutto in un finale sin troppo in cavalleria.
Nulla di particolarmente grave, a maggior ragione se contestualizzato in un’ottica meramente commerciale. Piaceranno di certo alla platea i genitori ansiosi, comprensivi e affiatati impersonati da Julia Roberts e Owen Wilson. Incanterà la silenziosa sorella di nome Via, in possesso di una saggezza da adulta che la porterà a reclamare con garbo il proprio spazio affettivo nei confronti dei genitori come ovvio maggiormente protesi verso il più piccolo e “diverso”. Così come tutti gli altri personaggi di rilievo sapranno farsi apprezzare per le rispettive dimostrazioni di apertura mentale.
Appropriata dunque l’uscita natalizia sul mercato italiano per un lungometraggio come Wonder, la cui catartica visione sarà certamente in grado di far sentire più buoni grandi e piccini. Resta però intatto l’amletico dubbio se il lungometraggio possa davvero essere considerato utile ai fini pedagogici, rispecchiando quasi del tutto una realtà che, ad uno sguardo sommario, sembrerebbe più composita e meno propensa all’ottimismo di quanto possa trasparire dal film. Tuttavia il cinema è anche fatto per sognare, idealizzando determinate situazioni. Non resta dunque che approvare Wonder con tutti i benefici del dubbio inerenti al caso, fermo restando come la “meraviglia” pura della Settima Arte alligni di sicuro altrove.

Daniele De Angelis

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