Peccato mortale
Per la 36esima edizione del Bergamo Film Meeting, la direzione artistica ha voluto fare ben due strappi al regolamento che vuole, per la composizione della rosa dei sette titoli in concorso, quasi esclusivamente opere prime e seconde. Sono state, infatti, ben due le white card concesse per completare la selezione della “Mostra Concorso” e una di queste è finita nelle mani di Anna Jadowska, che ha potuto così accompagnare la sua quinta fatica dietro la macchina da presa alla kermesse lombarda.
In Wild Roses, la cineasta polacca racconta la storia di Ewa, una donna che dopo un lungo periodo di ricovero torna a casa dai suoi bambini, Marysia e Jaś. Suo marito Andrzej mantiene la famiglia lavorando in Norvegia, mentre lei guadagna qualcosa raccogliendo rose selvatiche. Il tempo che li ha tenuti separati, ha creato una distanza incolmabile tra loro. Quando Andrzej torna per la Prima Comunione di Marysia viene a sapere delle voci che circolano sulla relazione tra la moglie e Marcel, un ragazzo poco più che adolescente. Ewa si sente giudicata e incompresa: il suo rapporto con il marito e i figli si incrina, le cose iniziano a farsi complicate e lei capisce che è ora di prendere delle decisioni. Un giorno, mentre è al campo di rose, Jaś scompare.
Ed è proprio la scomparsa del secondo genito, l’ansiogena ricerca al cardiopalma e disperata tra la fitta boscaglia nella speranza di ritrovarlo (vivo o morto), l’input che permetterà al film, nei suoi ultimi trenta minuti a disposizione, di portare sul grande schermo quella tensione e quel ventaglio di emozioni che, al contrario, per gran parte della timeline erano rimaste cristallizzate in un potrei ma non voglio, quello tipico di chi vuole sferrare al fruitore di turno quel gancio improvviso capace di mandare l’avversario giù al tappeto. E questo è esattamente il modus operandi sul quale la Jadowska ha deciso di puntare sin dalla fase di scrittura di questo dramma umano, per poi replicarlo nella messa in quadro. Nella prima ora di Wild Roses, infatti, l’autrice si limita ad accumulare stati d’animo, sensazioni e silenzi, ma soprattutto si impegna il più possibile a tenere nascoste quelle verità che verranno a galla solo in prossimità degli ultimissimi fotogrammi.
Ora, in linea di massima quello adottato dalla Jadowska è il più classico dei meccanismi a orologeria che tante soddisfazioni ha dato in passato, ma nel suo caso la procedura che porta al suddetto innesco non funziona come dovrebbe, o almeno solo a fasi alterne, mettendo di fatto alla prova la pazienza dello spettatore, la nostra compresa. Sino al già citato momento X la narrazione e le sue dinamiche drammaturgiche fanno fatica a tenere a sé la platea, lavorando più che altro sulle atmosfere (bucoliche), sui tempi dilatati e sul potrebbe accadere ma non accade, offrendo se non in rarissime circostanze sussulti degni di nota dove è la bravura della protagonista, con la sua interpretazione di una madre e di una moglie dolente e scissa, a mantenere a galla il tutto. Marta Nieradkiewicz, qui nei panni di Ewa, si carica letteralmente sulle spalle il peso del film e di un personaggio estremamente complesso, fatto di sfumature e non di estremi, devastato nell’anima prima che nel corpo, ma soprattutto soffocato giorno dopo giorno dalle pressioni di una piccola comunità cattolica molto legata alla pratica religiosa. Su quelle sfumature costruisce e delinea una mina vagante pronta a esplodere, ma sopratutto riesce a portare sullo schermo la materializzazione di uno stato d’animo inafferrabile e davvero difficilissimo da rendere senza cadere nel didascalico, nel banale e nel peggiore dei casi persino nel macchiettistico, ossia quel mix letale di frustrazione, senso di colpa e dolore che può devastare chiunque.
Francesco Del Grosso