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West Side Story

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VOTO: 7

Spielberg rilancia il musical “vintage”

Alla base del remake realizzato da Steven Spielberg, c’è West Side Story (1961) di Jerome Robbins e Robert Wise, pietra miliare del musical cinematografico, pellicola vincitrice di ben 10 Oscar e con una delle colonne sonore più famose (le indimenticabili musiche sono di Leonard Bernstein). Inoltre, la pellicola di Robbins e Wise, trasposizione dell’omonimo musical di Broadway, si distingue per essere una delle più riuscite rivisitazioni di “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare. Pertanto fare un remake di una pellicola così immaginifica era rischioso, per l’inesorabile comparazione. West Side Story versione 2021, (ri)sceneggiato da Tony Kushner, certamente è inferiore all’originale, però va analizzato in modo differente, osservandolo attraverso il percorso cinematografico di Spielberg; e tralasciando anche i disastrosi risultati ottenuti al box office, che hanno già decretato il grandissimo flop, aspetto rarissimo per un film di Steven Spielberg.

Con West Side Story il regista firma il suo terzo remake, dopo Always – Per sempre (Always, 1988) e La guerra dei mondi (The War of Worlds, 2005), ma questo rifacimento è completamente differente da quegli altri due approcci cinefili. Quei due riarrangiamenti, ovvero di Joe il pilota (A Guy Named Joe, 1943) di Victor Fleming e di La guerra dei mondi (The War of the Worlds, 1953) di Byron Haskin, erano aggiornamenti di due classici “minori”: il primo trasposto al sentimentalismo anni Ottanta (ma narrando una storia di persone mature), il secondo recuperando la Sci-Fi degli anni Cinquanta (con annesso messaggio anti-comunista) trasponendola all’incubo del terrorismo. Con West Side Story Spielberg non attualizza la storia, ma (ri)realizza il film come se fosse stato girato direttamente in quel periodo, ricreando meticolosamente quei quartieri poveri di Manhattan, in fase di smantellamento per l’imminente creazione del Lincoln Center. Nostalgia per quel mondo ormai scomparso evidenziato già nella prima sequenza, quando con un sinuoso movimento della macchina da presa Spielberg ci mostra le macerie degli edifici abbattuti. Desolante panorama che fa tornare alla mente anche le rovine di Ground Zero. Certamente West Side Story si inserisce perfettamente in quel particolare modo – cinematografico – di Spielberg di raccontare la storia americana, però non va preso direttamente come un film con annessa disamina socio-politica, benché la storia verta sulla lotta tra bande di differente etnia, bensì come un’opera che vuole omaggiare il cinema di una volta, pienamente cinematografico e non sintetico come quello che prevale oggi. E in ogni fotogramma si percepisce questo amore cinefilo, quella cura per il dettaglio, tanto scenografico (di Adam Stockhausen) quanto fotografico (Janusz Kaminski ormai è una garanzia di qualità). Il tocco visivo di Spielberg, oltre ai meravigliosi e articolati movimenti che fa compiere alla macchina da presa, si vede nelle scene in cui le finestre filtrano la forte luce del sole, a baciare i protagonisti e tutto l’accurato profilmico. E infatti il film è prevalentemente luminoso e speranzoso, proprio perché racconta una storia di teenagers, e le atmosfere divengono scure e senza speranza solo nel finale, a tragedia compiuta.

Tra l’originale e il remake ci sono, tutto sommato, poche differenze sostanziali. Le nuove coreografie sono curate da Justin Peck, e l’unica che non ha lo stesso impatto visivo ed emotivo dell’originale è quella in cui Anita cantava “America” sui tetti del proprio edificio (nella nuova versione la coreografia si svolge prevalentemente per le strade. Ci sono anche dei cambi nei dialoghi, in cui è permesso utilizzare termini che a quel tempo sarebbero stati censurati. E ulteriore particolare aspetto, è quello di far interpretare a Rita Moreno (Anita nell’originale), il ruolo dell’anziana e saggia proprietaria del negozio in cui lavora Tony (nell’originale il negoziante era Doc, interpretato Ned Glass). Far interpretare a Rita Moreno questo personaggio, oltre che per rendergli un doveroso tributo, è per redimerla da quanto fece, nel ruolo di Anita, nell’originale: ovvero fu lei a dare la falsa notizia della morte di Maria a Tony. West Side Story, pertanto, non va considerata un’opera fallimentare del regista, che conferma le sue doti di affabulatore cinematografico, ma rappresenta un’ulteriore prova di come il pubblico odierno si sia disabituato a un certo tipo cinema, da ritenere “demodé”. La La Land (2016) di Damien Chazelle, che pareva aver rilanciato il musical, fu semplicemente un caso, e il “vintage” era soltanto epidermico.

Roberto Baldassarre

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