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We Are Young. We Are Strong

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VOTO: 8

This is Deutschland

Primo film del concorso proiettato al Festival di Roma, da noi visto con particolare godimento dopo l’assoluto bagno di mediocrità dell’italico Soap Opera, We Are Young. We Are Strong (Wir sind jung. Wir sind stark) ha rappresentato per la kermesse capitolina una partenza vera, una partenza coi fuochi d’artificio. Davvero un gran film, quello di Burhan Qurbani, che sa mettere in scena le tensioni razziali a Rostock nel periodo successivo alla riunificazione tedesca, proponendo molteplici punti di vista e dando luogo a una critica socio-politica alquanto serrata, senza mai trascurare quella componente stilistica che in alcuni piani sequenza raggiunge vette notevoli.

L’autore, ‘classe 80 e proveniente da una famiglia di rifugiati di guerra afgani, ha già dimostrato in Germania di sapersi ritagli spazi importanti: non solo per le sue esperienze teatrali, ma anche per Shahada, lungometraggio d’esordio premiato alla 60ma Berlinale nel 2010. Ma torniamo pure a We Are Young. We Are Strong e a un modo di rapportarsi agli scenari dell’immigrazione, sempre più presenti nel cinema tedesco degli ultimi vent’anni, che rispetto ad altri cineasti di successo quale per esempio Fatih Ahin sono stati rappresentati, nella circostanza, con toni e peculiarità assai differenti. L’azione si svolge qui in un arco temporale quanto mai ristretto, ovvero nelle ore cruciali che portarono alla cosiddetta “notte del fuoco” dell’agosto 1992, circa tre anni dopo la caduta del muro di Berlino, allorché alcune migliaia di neonazisti e di loro simpatizzanti incendiarono un centro di accoglienza che ospitava 150 rifugiati vietnamiti, al culmine di tensioni e di scontri con la polizia durati giornate intere. Burhan Qurbani sembra voler fare ricorso a modalità narrative, nonché a elementi di natura stilistica, che riecheggiano alla lontana il cinema di Shane Meadows, più in particolare quello che rimane a nostro avviso il suo capolavoro: This is England (2006). Il cineasta tedesco non ha ancora raggiunto, forse, la profondità di sguardo del più esperto collega britannico. Ma i risultati sono comunque eccellenti. Analogamente a Meadows, Burhan Qurbani tenta di squadernare il quadro sociale di riferimento, applicando una lente d’ingrandimento potente a quella gang di giovani skinheads le cui dinamiche interne e i cui movimenti vengono seguiti con sguardo scrupoloso, attento, ispirato. Uno script estremamente maturo si scinde in molteplici punti d’osservazione, dalla famigliola vietnamita alla suddetta banda di nazi, da altri ambienti proletari (lo sfruttamento del lavoro è qui un altro tema importante) o sottoproletari alle reazioni indecise, vigliacche, sostanzialmente ipocrite della classe politica, di fronte all’esplodere della violenza razziale. Sono in particolare le oscillazioni opportuniste di alcuni esponenti della socialdemocrazia, rappresentanti locali dell’SPD, a meritarsi un’osservazione caustica e amara. Lo spessore dei contenuti risulta poi ottimamente distillato all’interno di una ricerca formale molto curata, che si fa forte del significativo passaggio dal bianco e nero al colore, della freschezza di talune scene coi ragazzi in riva al mare, nonché di qualche piano sequenza realmente da brividi: su tutti quello che descrive l’approssimarsi della banda di naziskin al principale teatro degli eventi, il comprensorio dove vivono i richiedenti asilo, la cui complessità è così ben orchestrata da lasciare, nei frangenti in cui i ragazzi incrociano polizia, giornalisti, folla urlante, quasi senza fiato.

Stefano Coccia

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