Piccola donna
Non sorprende che l’esordio al lungometraggio di Tala Hadid – pittrice e regista nata a Londra da genitori di origine irachena e marocchina – si dimostri al tirar delle somme quasi una sorta di film sperimentale, in cui l’autrice ha ritenuto opportuno mettere dentro quelli che probabilmente rappresentano i suoi amori cinefili.
In The Narrow Frame of Midnight (Itar El-Layl il titolo originale), presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2014 nella sezione competitiva Cinema d’Oggi, l’autrice mescola con una certa padronanza e organicità periodi cinematografici e autori tra loro solo in apparenza lontani nel tempo, al contrario accomunati da un’eccezionale senso del bello artistico. Quest’ultimo discorso è riferito soprattutto al segmento narrativo che vede la piccola Aicha, protagonista del film insieme all’adulto Zacaria; la quale, dopo un’infanzia segnata dalla morte prematura della madre e la conseguente crescita in compagnia di un padre tossicodipendente e violento, approda finalmente in un’oasi di pace e serenità, ivi accompagnata proprio da Zacaria a seguito di svariate peripezie. Come ambientazione siamo in un Marocco ben diverso dall’iconografia tradizionale, che lo vuole territorio principalmente desertico. Il verde lussureggiante regna incontrastato e la Hadid può sottolineare ripetutamente questo legame empatico tra essere umano e natura attraverso immagini suggestive e monologhi interiori che non possono non ricordare molto da vicino il cinema filosofico e riflessivo di un certo Terrence Malick. D’altro canto, quando Zacaria si separa dalla bimba per cercare, a seguito di una promessa solenne fatta alla cognata, il fratello persuaso ad andare in Iraq a combattere l’invasore occidentale, il film assume quegli stilemi formali tanto cari a Michelangelo Antonioni. Una ricerca, fisica e morale, purtroppo impossibile che sempre è stata caratteristica, non solo narrativa ma soprattutto etica ed estetica, del regista di Professione: reporter. Giunto a Bagdad Zacaria si muove in un paese, un tempo remoto culla di civiltà, nel quale ora si respira solo aria di morte, perfettamente simbolizzata sia dal sangue negli ospedali che dall’arrivo delle vedove in nero nella sterminata piazza della capitale irachena, a sommergere metaforicamente il dolore di uno stremato Zacaria. Difficile immaginare un quadro più “antonioniano” nell’insieme.
I detrattori forse argomenteranno appunto che l’esordio della quarantenne Tala Hadid potrebbe sembrare la tesi di uno studente di cinema fuori corso, più che una vera e propria opera narrativa o comunque di finzione; a nostro avviso, invece, la regista riesce a fondere con molta cognizione di causa registri quanto meno differenti, con la parte più cruda riguardante il rapporto tra Aicha ed il padre molto vicina alle dinamiche socio-antropologiche magistralmente analizzate dal nostro neorealismo molti decenni orsono. Sono evidenti, è vero, alcuni difetti classici dell’opera d’esordio: eccessiva voglia di dimostrare il proprio talento, qualche rischio di estetismo un po’ fine a se stesso e una sceneggiatura non sempre all’altezza, in particolare nel tratteggio della figura troppo sopra le righe padre di Aicha. Però all’attivo c’è anche, tra i non pochi meriti del film, la presenza di Fadwa Boujouane, la piccola (non) attrice che interpreta Aicha. Un autentico miracolo di spontaneità capace di conquistare lo spettatore al primo sguardo, con un volto dai lineamenti precocemente adulti che da solo racconta una storia di pura sofferenza mista a incontenibile desiderio di riconquistare ciò che il Destino le ha sin lì tolto. In pratica un altro film, ancora da girare sia nel prologo che nell’epilogo, lasciato del tutto all’immaginazione dello spettatore.
Trattandosi dunque di un’opera prima saremmo quindi tentati di affermare come tutto ciò possa bastare, per esprimere un giudizio positivo su The Narrow Frame of Midnight.
Daniele De Angelis