Di nome e di fatto
Con l’eccezione di alcuni sporadici sprazzi di originalità (ad esempio il riuscito Smetto quando voglio di Sydney Sibilia), la commedia italiana contemporanea è ormai divisibile, semplificando al massimo, in due categorie. Nella prima, capitanata dai vari Pieraccioni, Ruffini e compagnia poco bella, si naviga a vista nel mare del nulla, sperando di attirare spettatori paganti ormai da tempo non più in grado di distinguere tra piccolo e grande schermo, anche perché le differenze sono state scientificamente azzerate in tempi ormai remoti. Trama inesistente, volti più o meno noti di estrazione magari televisiva, bellone di turno, volgarità a dosaggio variabile e, se va bene, qualche momento comico di decente levatura. Nella seconda, della quale fa parte a pieno titolo il film d’apertura (!!) del Festival Internazionale del Film di Roma Soap Opera, si cerca con pervicacia l’imitazione di modelli alti, tipo la classica commedia francese di impostazione teatrale, molto scritta e molto parlata con qualche variegato tocco esistenzialista. Riconosciamo dunque al regista Alessandro Genovesi – già reduce dai tutt’altro che indimenticabili La peggior settimana della mia vita (2011) e Il peggior Natale della mia vita (2012) – il tentativo di staccarsi dal grado zero del genere, anche in virtù delle proprie origini, appunto, teatrali. Oltre ad un accurato comparto scenografico e ad una regia che prova per una volta a mostrare i soldi spesi, le note positive di Soap Opera si fermano qui; e quella che in tutta evidenza sarebbe stata in teoria pensata come una brillante commedia di caratteri fallisce giustappunto nella descrizione dei vari personaggi, mascherine senza spessore in luogo di esseri umani tridimensionali.
Il plot – definizione decisamente impegnativa, nella fattispecie – suona dunque falso e pretestuoso sin dalle primissime battute, quasi un semplice espediente per far riunire il solito stuolo di attori e attrici ormai da tempo confinati in un (sotto)genere che li sta progressivamente soffocando. Eppure qualche ambizione di intavolare discorsi sui massimi sistemi ci sarebbe anche stata, nel film di Genovesi: suicidi, amori contrastati, nuove nascite e relazioni complesse avrebbero dovuto fornire spessore ad un film che invece corre quasi inconsapevolmente sui binari di una superficialità a tratti davvero disarmante. L’ambientazione condominiale serve solo a far rimpiangere le famiglie differenti e genialmente disfunzionali di Wes Anderson, per l’occasione preso a modello (ma guarda un po’…) per i colori pastello della fotografia nonché la scelta di alcune inquadrature che offrono una visuale totale, osservata nel suo interno, dello stabile. La “happy family” – dal titolo del film affine di Gabriele Salvatores, peraltro sceneggiato dallo stesso Genovesi – di Soap Opera però non conquista affatto, persa tra desideri mancati di sophisticated comedy e mescolanza incongrua di generi che invece raggiungono in souplesse l’obiettivo poco ambito della prevedibilità di una farsa di gruppo. Tutto davvero troppo eguale a se stesso, con Fabio De Luigi ad interpretare il ragazzone quarantenne goffo ma innamorato di una Cristiana Capotondi al solito diafana con tendenza all’ectoplasmatico (ne rimpiangiamo il portamento ne La mafia uccide solo d’estate di Pif), una Chiara Francini nella finzione “perfetta” attrice di soap ad esporre il fisico generoso. In più un Ricky Memphis futuro padre depresso con dubbi di sessualità – in un ruolo con qualche potenzialità sistematicamente gettata al vento – ed un Diego Abatantuono ormai ridotto a pallida imitazione della maschera che è stato.
Se la scelta di insignire Soap Opera del titolo di film d’apertura della kermesse romana aveva lo scopo di ridisegnare almeno in parte gli asfittici confini della commedia nostrana, si può tranquillamente parlare di buco nell’acqua. Oppure nella neve, vista l’ambientazione invernale di un lungometraggio che suona artefatto e molto preparato a tavolino (bene? Male? Al pubblico la poco ardua sentenza…) esattamente come il suo essere stato girato totalmente in studio. Se comunque ci si accontenta della professionalità tecnica dell’insieme, senza cercare a tutti i costi un barlume di originalità, la visione di Soap Opera potrebbe risultare meno punitiva di tanto, troppo altro cinema tricolore.
Daniele De Angelis