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Vinyl

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VOTO: 7

“Fucking, fighting, nothing”

Sarebbe difficile, dal caotico marasma di suoni, immagini e sensazioni che la compongono, distillare una sola scena esemplare che riassuma al meglio l’impatto emotivo di Vinyl.
Perché, sebbene la serie targata HBO e ideata da Martin Scorsese e Mick Jagger non sia affatto parca di scene madri, tutto, ma proprio tutto, in essa, pare intriso e unito dalla stessa, medesima forza sinestetica e allucinata.
Non sembra affatto un caso, d’altronde, che quel 1973 in cui hanno luogo gli eventi sia lo stesso anno in cui vedeva la luce un film come Mean Streets e un intero, debordante, modo di fare cinema.
É proprio lo stile che marcava la storia di Harvey Keitel e compagni nella brutale quotidianità di Little Italy –  in seguito codificato e manierato quanto si vuole –  ad abitare ogni fotogramma della serie, a essere innalzato a stato mentale, a distorta visione del mondo, a sguardo lisergico su un pezzo di storia.
A suo modo, è un lungo, lunghissimo trip quello che, a partire da un pilota di due ore diretto dallo stesso Scorsese, si dipana per dieci, caotici episodi, rispolverando un intero immaginario per poi, proprio attraverso quello stesso stile vorticoso ed eccessivo, lasciarlo galleggiare e perdersi tra le note indimenticabili di un’intera epoca, quella delle grandi band, dei mostri sacri al tramonto, della nascente disco music.
Perché che altro se non la musica, quella banale eppure magica manciata di accordi, può regolare vite e destini di una casa discografica, segnarne svolte, fortune, clamorose cadute.
É quello che pressappoco succede a Richie Finestra (un perfetto Bobby Cannavale, finalmente in un ruolo da protagonista), presidente di un’importante etichetta in piena crisi economica ed esistenziale, devastato dai sensi di colpa, dalla cocaina e da un mercato discografico mai così imprevedibile.
Non bisogna andare troppo lontano per capire che, sin dalle premesse, l’idea alla base di Vinyl, quella cioè di farsi punto di vista privilegiato su un’epoca, sui suoi vizi, le sue (poche) virtù e i suoi distorti sogni, non è dissimile da quella di un’altra acclamata serie di successo come poteva essere Mad Men. Dalla pubblicità alla discografia il passo, infondo, è davvero breve, così come le speculari dinamiche all’interno dei caotici uffici della Sterlin Cooper e dell’American Century Records.
Eppure, episodio dopo episodio, pare sempre più chiaro che non sono le orme di Don Draper quelle che l’allucinato e sfatto Finestra cerca di seguire. Nel mondo di Vinyl non ci sono padri putativi da rincorrere né certezze a cui aggrapparsi, nemmeno quelle garantite dalla menzogna o dalla manipolazione. In quel mondo l’unica soluzione pare essere quella di abbandonarsi, perdersi e lasciarsi trasportare dalla corrente, da quel turbine psichedelico e roboante di vibrazioni che ha il gusto della più dolce e grottesca delle disfatte.
Mai come in questo caso l’abusato trittico sesso, droga e rock&roll è stato scandagliato in ogni sua declinazione, in ogni suo tragicomico risvolto, e se molto in realtà poteva ancora essere fatto per ragionare al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni, Vinyl, con la sua forza anarchica e sovversiva, umorale ed esplosivo come quei Nasty Bits precursori del punk con i quali Richie decide di giocare la sua ultima carta, resta un prodotto anomalo e fortemente coinvolgente, barocco e rigonfio di virtuosismi, con quel tanto che basta di inquietanti suggestioni oniriche e lynchiane da farne un trip di acido destinato, inevitabilmente, a finir male.
Tutto il resto è musica.

Mattia Caruso

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