Il cineasta inglese svela gli amari retroscena di “American Woman”
Il regista Jake Scott è stato protagonista di una vivace videoconferenza in occasione della vittoria, quale miglior regista, al Film Festival Internazionale di Milano 2020 per il film American Woman. Occasione in cui ha potuto parlare di questo racconto sugli anni tragici di una donna della Pennsylvania, alle prese con la sparizione della figlia, e girato ormai due anni fa. Se il titolo vi è comunque nuovo, è perché questo ha visto un’uscita limitata negli States e, successivamente, una notevole difficoltà distributiva nel resto del mondo.
La pellicola infatti, nonostante un’interpretazione di altissimo livello di Sienna Miller (anch’essa vincitrice di un altro premio al festival meneghino come miglior attrice), non ha per ora incontrato grande popolarità, né è stato oggetto di particolare attenzione da parte della critica. La curiosità di parlare con il regista di un’opera più che valida, ma curiosamente ignorata, ha dunque attirato la curiosità dei giornalisti di settore. Cineclandestino non solo non poteva mancare, ma è proprio grazie alle nostre domande che è stato possibile raccogliere una vera e propria notizia (che la dice lunga sul pessimo percorso promozionale che in effetti è stato intrapreso), ma su questo torneremo tra poco.
Dopo i saluti di rito di Andrea Galante, direttore del festival, introdotto dalla moderatrice Irene Mincuzzi, si parte senza indugio con le domande. Si comincia dalla questione dell’ispirazione per il film, basata sulla storia di una donna della California meridionale la cui figlia era stata uccisa e che, una volta arrestato l’assassino, aveva insistito moltissimo per poterlo incontrare. Una figura femminile con cui Scott dice di essersi “molto immedesimato, avendo io stesso tre figlie, come genitore mi sono sentito molto vicino“.
Viene poi affrontata la questione dell’atmosfera che si è respirata sul set, essendo stata particolarmente buona la resa attoriale di tutto il cast. Naturalmente, essendo il film principalmente una storia di famiglia, è stato importante “creare un ambiente molto familiare, un legame che ci ha resi appunto una reale famiglia“, come ci tiene a sottolineare il regista, “ho cercato di ricreare una vera e propria routine domestica e sono felice che la cosa si percepisca“. La cosa più interessante di questo aspetto è che, per dare una maggiore sensazione di legami che si evolvono, di una storia che cresce anche attraverso lo sviluppo progressivo dei personaggi, il film è stato girato in modo realmente sequenziale. “Non è cioè“, come spiega ancora Scott, “uno di quei casi in cui siamo costretti a filmare la fine prima dell’inizio, ma abbiamo potuto realizzare tutto esattamente nel modo in cui si vede, riuscendo così a tracciare una sorta di mappa emozionale, preservando il più possibile il realismo. In questo mi sono ispirato un po’ ai film di John Cassavettes“. Parlando di ispirazioni, per un film così corale, esse non si limitano probabilmente a Cassavettes perché, è stato notato, questo genere di dramma è stato più volte esplorato dal cinema americano. Jake Scott, in effetti, pur essendo inglese (“Sono nato in Inghilterra e sono cresciuto a Londra“) ama molto quel cinema: vengono citati Altman ma anche lo Scorsese di Alice non abita più qui (1974). Da quelle pellicole, molto intense, è mutuato il forte impatto emozionale che vediamo qui nel rapporto fra le due sorelle, interpretate da Sienna Miller e Christina Hendricks. L’una una vela che sbatacchia al vento, capace di far andare una nave a momenti alterni, l’altra un’ancora che evita alla stessa nave di perdersi nei momenti peggiori. Questa brillante metafora finisce quasi per commuovere Scott, i cui ricordi dell’impegno e delle emozioni vissute sul set sono evidentemente molto forti. Proseguendo ancora la conferenza, vengono evidenziate anche le trovate stilistiche che permettono al pubblico di empatizzare con i personaggi, con i loro stati d’animo: molti sono gli sforzi fatti per cercare di restituire il lungo percorso emotivo che attraversa un periodo di ben dodici anni. Gli attori stessi cambiano notevolmente l’impostazione della loro recitazione, rendendo evidenti le differenze tra il primo atto del film e la sua malinconica conclusione.
Ed eccoci alle nostre osservazioni, che arrivano in chiusura. Il titolo American Woman, infatti, sembra voler indicare, con una certa enfasi, che la storia sia quella di una tipica donna americana, appunto, e che i problemi affrontati siano peculiari della società a stelle e strisce. A noi però, vedendo il film, appare invece evidente che le gravi questioni affrontate rappresentino un po’ un denominatore comune degli sfortunati tempi che viviamo, una deriva che riguarda quantomeno tutto il mondo occidentale (ma non solo): abbandono domestico, droga, famiglie minate da genitori immaturi, da violenza endemica e tradimenti, con punti di riferimento inesistenti per gli adolescenti che crescono in un simile caos. E Scott non solo concorda, ma ci spiega rabbiosamente che questo titolo, da lui profondamente detestato, è il risultato di una miope imposizione dei produttori i quali, tra le altre cose, hanno notevolmente confuso i critici americani che hanno pensato al film come a un thriller, “solo un fottuto idiota potrebbe pensare che questo film sia un thriller, io ero senza parole perché questo non è un cazzo di thriller!” ci dice ancora risentito, stringendo i pugni. Quindi, a sorpresa, veniamo a conoscenza del titolo originale, e molto più indicato, che era stato scelto: The Burning Woman, a sottolineare la prostrazione e lo sfinimento provati da questa donna per gli enormi ostacoli che è costretta ad affrontare. “Il titolo non rappresenta adeguatamente il film“, continua Scott, “che trascende i confini americani e parla al pubblico di tutto il mondo. Penso che le difficoltà, le perdite, i fallimenti familiari siano universali. La vita può essere molto dura per chiunque, basta pensare a quest’ultimo anno“. C’è molta amarezza, ancora, quando aggiunge “Credo che il film non sia stato adeguatamente promosso in America e altrove, avrebbe potuto raggiungere un pubblico molto più ampio e sono molto deluso da come è stata gestita l’intera faccenda. Sono sorpreso che non ci siano stati molti premi nè nomination, è una pazzia, sarebbe stato un riconoscimento su quello che il film ha da dire, ed è molto, sulle questioni che sono state sollevate nella domanda“. A rendersi conto dell’importanza del retroscena che abbiamo contribuito a svelare, è lo stesso direttore del festival, Andrea Galante, che torna sulla questione prima di salutare Scott il quale, a quanto pare, ha ancora qualche proverbiale sassolino nella scarpa di cui sbarazzarsi quando ci dice: “Io credo che in America ci sia una cultura che tende a semplificare troppo le cose. La persona che ha scelto il titolo American Woman non era la più adatta ad occuparsi di questo film, non ne ha assolutamente compreso il senso, e il prodotto ne ha pesantemente risentito. E’ stato un errore scegliere un titolo così generico. Ed offensivo anche. Perché c’è questo modo di vedere le cose molto americano, presuntuoso, che così sembra voler tagliare fuori le donne del resto del mondo dall’intero ragionamento“. Ma non basta, c’è un altro sconfortante episodio che veniamo a sapere riguardo la produzione: “Ho girato il film prima che scoppiasse il caso del movimento Me Too, e voglio raccontarvi una cosa. C’è una scena, all’inizio, in cui Sienna Miller deve fare un piccolo, squallido spogliarello per l’uomo sposato con cui è in motel. Ed esce dal bagno vestita solo in lingerie da due soldi. Due degli investitori di New York, guarda caso, si sono presentati sul set proprio quel giorno, solo per poterla vedere in mutande“. Se non sembra abbastanza, sappiate che “La scena doveva essere triste, degradante, l’ho girata per essere tale e uno di loro si permise di dire <<Ehi! Il tizio che l’osserva non sembra si stia divertendo granché, non puoi rigirare la scena facendo in modo che lui si ecciti di più?>> e così gli ho risposto <<Perché? per te? Così potrai andarti a masturbare? Sei disgustoso, non è questo il genere di film che stiamo facendo>> è per questo che ho pensato che in fase di montaggio la scena dovesse chiudersi lì, anche se abbiamo girato altro materiale facilmente immaginabile”. Un altro ragionamento sul modo in cui è stato necessario cambiare la sceneggiatura, per meglio tratteggiare il personaggio principale, gli fa concludere: “Questa gente non è in grado di vedere nei dettagli, di comprendere il significato di alcune scene, è così che si sono inventati questo cazzo di stupido titolo, perdendo completamente il senso del film e del personaggio“.
Una nostra domanda è andata quindi a sviscerare una serie di problemi i quali, a quanto pare, hanno piagato non poco la promozione di un film che, a oggi, è virtualmente sconosciuto al grande pubblico. Un motivo in più, per chi volesse, di recuperarlo e finalmente vederlo, se non altro per la grande prestazione fornita dal cast e da Sienna Miller in particolare.
Massimo Brigandì