Salvate l’orsacchiotto
Accade piuttosto di frequente, ahinoi, che film dalle potenziali suggestioni si stemperino in accurate, da un mero punto di vista formale, ma melense ricostruzioni d’epoca totalmente impregnate di un deleterio spirito buonista. Questo Vi presento Christopher Robin (nella titolazione originale, almeno più evocativa, Goodbye Christopher Robin) possedeva in teoria elementi di sicuro interesse da approfondire. Come l’equilibrio, sempre difficoltoso poiché difficilmente controllabile, tra ispirazione artistica e realtà effettiva. Ma anche l’esplorazione di un difficile rapporto genitore/figlio minato dall’ambizione e dal successo. Ci stiamo riferendo, per essere maggiormente specifici, ad un lungometraggio che rievoca la creazione del celeberrimo personaggio detto Winnie the Pooh, avvenuta nella seconda metà degli anni venti ad opera dello scrittore A.A. Milne, quest’ultimo spinto dall’affetto per il figlioletto – appunto Christopher Robin – a scrivere una serie di romanzi per ragazzi di enorme successo mondiale.
Il problema principale di questo tipo di pellicole resta sempre un’eccessiva timidezza narrativa dovuta in primo luogo all’esigenza di realizzare un prodotto commerciale per famiglie. Già il nome del regista – il piattamente televisivo, per origini, Simon Curtis già artefice dei non eccelsi Marilyn (2011) e Woman in Gold (2015), da non confondere con Richard Curtis, valente regista nonché sceneggiatore del cult Quattro matrimoni e un funerale (1994) – dovrebbe far squillare delle autentiche sirene d’allarme in quanto a trattamenti allegramente superficiali delle questioni appena enunciate. In effetti Curtis stavolta fa anche di peggio, riducendo l’intera vicenda ad una parabola dallo spirito natalizia di scarso spessore, con personaggi monodimensionali che appaiono come statuine pietrificate in una sorta di presepe vivente permeato di scontati buoni sentimenti. Bambini che fanno smorfie per intercettare la tenerezza empatica degli spettatori; adulti distaccati per contratto che delegano a tate gentili il ruolo genitoriale sino a quando non si ritrovano soli – come succede al papà – ad accudire un pargolo di suo meno espressivo dei peluche con cui gioca, tra i quali pure il fatidico orsacchiotto “ispiratore” del tutto. Sui presumibili tormenti del processo creativo viene steso un velo complice, data la ritrosia del film a sottolineare momenti intimi e perciò delicati; in compenso abbondano i flashback su quanto sia brutta la guerra, con papà Milne traumatizzato da ciò che ha visto al fronte nel corso del Primo Conflitto Mondiale. Ovviamente, a mo’ di pena del contrappasso, toccherà al rancoroso figliolo – per essere stato sfruttato come protagonista dei libri e trascurato dal padre troppo intento ad inseguire fama e denaro – una volta adulto partire per il fronte della Seconda Guerra Mondiale senza salutare. Inutile dire che, dopo lacrime e metaforico sangue versato, il finale culminerà con una “sorpresa” da sconsigliare vivamente a coloro che potrebbero patire sbalzi acuti di glicemia.
Anche Vi presento Christopher Robin segue dunque le infausti sorti di altri lungometraggi incentrati su illustri creatori di favole come ad esempio Neverland – Un sogno per la vita diretto da Marc Forster nel 2004 con Johnny Depp nei panni del nume tutelare di Peter Pan. Grande sfarzo nella confezione – belle le locations e laccata oltre ogni senso della misura la fotografia di Ben Smithard – ma incapacità cronica di ricreare sul grande schermo la magia che traspariva dai testi scritti. D’accordo che rappresentare la vita in rapporto alla scrittura non è certamente impresa facile; tuttavia in Vi presento Christopher Robin non ci si prova nemmeno, limitandosi a prendere qualsivoglia scorciatoia possibile per ammantare di appeal commerciale un film in cerca di un proprio pubblico dalla bocca buona. Reato da codice penale, poi, inamidare in un ruolo puramente ornamentale la bellezza talentuosa di Margot Robbie, qui nei panni della moglie dello scrittore e madre poco affettuosa di cotanto figlioletto. Il risultato finale – senza mai sfiorare le cadute di gusto dello scult da comicità involontaria, purtroppo – è quindi all’insegna della banalità più assoluta. Una sorta di mare piatto disneyano nel senso maggiormente deleterio del termine, al pari di quello talvolta proposto dalla casa madre che si è assicurata i diritti di Winnie the Pooh una volta scomparsi creatore ed eredi. Strani scherzi del destino; anche se, nella circostanza, è la Fox a produrre…
Daniele De Angelis