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Veleno

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VOTO: 6.5

Terre bruciate

Ovviamente, trattandosi di opera cinematografica incentrata sulle nefandezze della criminalità organizzata perpetrate nella cosiddetta Terra dei Fuochi, la parola veleno contenuta nel titolo contiene almeno un duplice significato. Il primo si riferisce all’avvelenamento fisico di un territorio ben altrimenti sfruttabile, dove vengono smaltite innumerevoli quantità di rifiuti tossici da parte della camorra; il secondo veicolo di senso, ben più articolato, riguarda invece il modus operandi con cui il malaffare agisce sulle menti degli individui locali, cercando di portarli dalla loro parte prima inducendoli in tentazione attraverso l’arma impropria del denaro, e in seconda battuta, qualora non avesse successo l’argomentazione della vile pecunia, ricorrendo a metodi minacciosi per convincerli a fare ciò che essi vogliono. Triste realtà, tanto più che Veleno, diretto da Diego Olivares – lungometraggio presentato nell’ambito della Settimana della Critica alla 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia – risulta essere il resoconto di una storia vera. Purtroppo una delle tante, nel nostro martoriato paese, che vedono la perseveranza di uno o più cittadini del tutto priva di qualsivoglia supporto istituzionale.
Il fatto che Olivares, originario di quelle parti, conosca sin troppo bene determinate dinamiche lo si nota immediatamente dallo stile scelto per la realizzazione del suo film. Non una spettacolarizzazione accentuata in stile Gomorra – ci riferiamo ovviamente alla serie televisiva e non al film omonimo di Matteo Garrone – delle imprese di certa criminalità, quanto piuttosto un’osservazione quanto più possibile neutra, quotidiana e dalle intenzioni quasi “antropologiche” rispetto ad una fauna umana che esclude quasi a priori il concetto basilare di legalità. Pressoché esemplare, in questo senso, la scelta di far interpretare a Salvatore Esposito, l’ormai famosissimo attore che interpreta il ruolo di Genny nell’appena citata serie tv Gomorra, un ruolo da “colletto bianco” della camorra, personaggio del tutto anonimo il quale solo nell’epilogo trova il modo di segnalare, peraltro drammaticamente, in modo significativo la propria presenza. Quasi una dichiarazione di intenti per un film che, raccontando nel principale binario narrativo la vicenda di una coppia (interpretata da una volenterosa Luisa Ranieri e da un professionale Massimiliano Gallo) che non vuole cedere ai ricatti la terra appartenuta alla famiglia da generazioni, si sofferma volentieri sui dettagli di situazioni in cui la strada del crimine, salvo improbabili cambiamenti, trova e troverà sempre terreno fertile. Un contesto reso da Olivares in un’atmosfera di cupezza interiore, in voluto contrasto con la solarità dei luoghi, dove si ha la percezione che il peggio possa accadere in qualsiasi momento, una volta assodata la totale mancanza generale di etica nonché la totale assenza nel film, in fondo nemmeno troppo sconvolgente, delle forze dell’ordine.
Tutti motivi per i quali Veleno resta un film da vedere e “studiare” con attenzione, nonostante qualche neo identificabile soprattutto in una regia non sempre di ampio respiro nel tratteggiare i vuoti esistenziali di quei luoghi e soprattutto in alcune digressioni di stampo melodrammatico – l’eccessiva attenzione all’intimità dei coniugi dopo la scoperta della malattia di lui – che appaiono abbastanza fuori contesto nell’economia generale del racconto. Difetti non del tutto trascurabili che vengono però riscattati da un finale capace sia di lasciare il segno che illuminare ulteriormente sulle presunte “vie di fuga”, arcaiche ed inefficaci, da una situazione che definire disperata, persino nell’anno di (pochissima) gloria 2017, parrebbe puro esercizio sofistico di totale assuefazione ad una cancrena che in Veleno si propaga senza freni, colpendo un po’ tutti a livello simbolico e solamente gli innocenti in modo effettivo. Così va, sin troppo beffardamente, la vita.

Daniele De Angelis

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