Come nei vecchi film
Du Qui è un legale eccellente, dotato di carisma e intelletto. Non a caso è sotto contratto di una grossa casa farmaceutica, la Teijin. L’azienda sta crescendo, e ha bisogno di un cambio nei vertici. Una festa sfarzosa accompagna infatti il passaggio di consegna al nuovo presidente, il figlio di Sakai, e non mancano infatti gli elogi dell’ormai ex leader all’avvocato, che con le sue azioni ha portato prosperità e ricchezza alla famiglia con l’entrata in borsa dell’industria. Peccato che, dopo quella serata di carezze e di lodi, la mattina seguente l’uomo si sveglia con una sorpresa di certo non gradita: un corpo esanime di una donna sul letto. Da qui parte una incredibile caccia all’uomo, inseguito non solo dalla polizia ma da delle spietate assassine di nome Dawn e Rain, assoldate dalla stessa azienda per farlo fuori. Il motivo? Un potente siero sviluppato dalla Teijin che, somministrato con le giuste dosi, è in grado di incrementare la forza. Fortunatamente non è solo, perché dalla sua parte c’è Mayumi, una ragazza rimasta vedova che vuole giustizia (o vendetta), e Yamura, un poliziotto che, con il proseguo delle indagini, non crede alla sua colpevolezza.
C’è una scena in particolare che rappresenta il vero obiettivo di questo ritorno al passato di John Woo. La scena iniziale di Manhunt, presentato Fuori Concorso alla 74esima Mostra del Cinema di Venezia, è un connubio nostalgico di emozioni di un cinema che non c’è più. Il dialogo tra Du Qui e una delle due ragazze all’interno del ristorante, nel quale viene fuori una passione comune per i lungometraggi degli anni ‘80-‘90, è il pensiero dell’autore sotto forma di immagine in movimento. “Aspetta che in macchina ho un vecchio DVD da mostrarti” afferma il protagonista che esce dal locale in direzione della vettura. Ed è proprio qui, nel momento in cui sparisce il personaggio, che quel vecchio disco riparte rivelando le identità delle due donne sotto le vesti di cameriere. Le due killer mostrano la loro vera identità di killer sotto contratto, che uccidono sotto un preciso ordine. Lo spettacolo mostrato in quella prima sequenza viene più volte riproposta nell’arco di tutto il film attraverso lo stile unico del regista. L’utilizzo dello slow motion, di piano sequenze che si concentrano sui momenti chiave dell’azione e di campi medi che sottolineano le fasi critiche e di forte contrasto (come il rosso sangue del marito che sporca il candido vestito da sposa di Mayumi), sono un degno omaggio alla sua carriera, oltre a essere una dimostrazione chiara e cristallina che con la macchina da presa riesce ancora a dire la sua.
La contaminazione dei generi è un altro punto da tenere presente per quanto riguarda quest’ultima fatica dell’autore di A Better Tomorrow (per altro citato in una delle fasi finali della storia). Se La congiura della pietra nera, film wuxia co-diretto assieme a Su Chao-pin, raffigura un lavoro che unisce due linguaggi, il fantasy e le arti marziali, con Manhut John Woo cerca di comprimere in un’ora e quarantacinque minuti ben quattro forme differenti. È palese il suo debole per il thriller, con gli intrecci che uniscono i soggetti per tutto il racconto e con alcune scelte che ricordano The Killer, uno dei suoi celebri capolavori. Non mancano alcune scene dove emerge la sensibilità e il ricordo dei personaggi, attraverso l’utilizzo di flashback tipici di alcune opere drammatiche. Tuttavia il genere predominante è la commedia, che surclassa tutti regalando scene d’azione surreali e parodistiche e che culmina verso la fine nella fantascienza più spinta, dove tutti i nodi vengono al pettine.
Poco importa che la storia sia sorretta da scelte narrative assolutamente banali e in un certo senso scollegate da un filo logico, perché l’autore ha già messo in guardia. Chi cerca in Manhunt una storia intrigante e profonda, deve tornare indietro. Chi vuole invece divertirsi con un film visivamente intenso e degno del suo maestro, le aspettative non saranno deluse.
Riccardo Lo Re