Il cinema secondo Agnès
Con ancora negli occhi la straziante scena della cineasta, fotografa e artista contemporanea belga naturalizzata francese Agnès Varda in lacrime sotto casa dell’amico e collega Jean-Luc Godard, nel momento in cui quest’ultimo ha finto di non essere in casa, pur sapendo di una sua imminente visita (all’interno del bellissimo documentario Visages, villages, per la regia della stessa Varda insieme al giovane fotografo JR), ci accingiamo, durante questa 69° edizione della Berlinale, a iniziare un nuovo, lungo (ma, in realtà, pur sempre troppo breve) viaggio nel mondo di questa simpatica pioniera della Nouvelle Vague, grazie al suo ultimo documentario, Varda par Agnès, presentato Fuori Concorso.
Si tratta, di fatto, di un viaggio nel tempo e nello spazio, in cui, analogamente a quanto è avvenuto nelle precedenti opere della regista, sono presenti pezzi della sua stessa vita, momenti presenti e passati, storie di normale quotidianità che, a ben leggere, vanno a scavare nel vissuto ora del marito Jacques Demy (con il lungometraggio Garage Demy, del 1991), ora di amici e colleghi, ora di persone incontrate casualmente, ora, nel suo stesso vissuto. Ha così inizio un intenso e sentito flusso di coscienza, che, di fatto, in quanto flusso di coscienza in sé risulta assai atipico, dal momento in cui la regista si apre al suo pubblico proprio sul palco di un teatro, dove è solita tenere lezioni di cinema. E così, con in primo piano la sua sedia da regista ripresa di spalle sul palcoscenico e dietro la quale scorgiamo, montato in fast motion, il pubblico in attesa, vediamo improvvisamente materializzarsi proprio la figura di Agnès Varda, improvvisamente apparsa seduta sulla sedia e con la sua inconfondibile acconciatura bicolore in primo piano.
Cos’è, dunque, il cinema secondo Agnès Varda? A detta della regista stessa, sono sufficienti solamente tre termini a definire il suo stretto rapporto con la settima arte: ideazione, creazione e condivisione. Tre elementi per altrettante fasi di realizzazione senza dimenticare, al contempo,lo stesso rapporto con il pubblico, fondamentale come l’aria per ogni autore (particolarmente significativa, a tal proposito, l’ironica immagine della Varda seduta sulla stessa sedia e sul medesimo palco, ma davanti a una platea totalmente vuota). Tre parole, per altrettanti elementi naturali che, nel corso degli anni, hanno regalato alla cineasta importanti momenti di riflessione e di ideazione, ossia il cielo, il mare e la terra. In quale luogo, dunque, è possibile trovare tutti questi tre elementi contemporaneamente se non sulle spiagge? Ecco perché l’idea della spiaggia in sé sembra essere tanto importante e tanto significativa per la regista: “Immagino che dentro ogni persona ci siano altrettanti ambienti che ne rispecchiano la personalità. Se penso alla mia interiorità, invece, vedo soltanto spiagge”.
Forte di queste confessioni a cuore aperto e abbracciando, allo stesso tempo, non solo l’intera filmografia della regista, ma anche i suoi lavori come fotografa e le sue singolari installazioni, Varda par Agnès – nostalgico, sentimentale, ma anche straordinariamente ironico e frizzante grazie anche alla stessa regia e a un montaggio, realizzato dalla stessa Varda, dinamico, ricco di jump cut e del tutto anticonvenzionale – può essere considerato di diritto come uno dei lavori più intimi e personali della cineasta, all’interno di una filmografia che di elementi strettamente legati alla sfera personale ne presenta davvero tanti. Eppure, una delle cose maggiormente interessanti del modo di far cinema di Agnès Varda è proprio la capacità di mettere in scena il proprio intimo dando ogni volta delle chiavi di lettura differenti e facendo sì che, allo stesso tempo, ognuno dei suoi lavori risulti apparentemente diverso dagli altri e con una propria, ben definita personalità.
Così è stato, ad esempio, anche per il già citato Visages, villages, le cui immagini hanno avuto il privilegio di chiudere questo ultimo lavoro, per un finale dalla straziante e dolosa bellezza in cui vediamo la regista seduta in spiaggia (suo elemento naturale), intenta a contemplare il mare insieme all’amico e collega JR, con la sua stessa voce fuori campo che, con serena rassegnazione, riflette sul momento in cui non sarà più in questo mondo, lasciando immaginare che, probabilmente, il presente sarà anche il suo ultimo lavoro. Oppure no.
Marina Pavido