Brasile di sangue
Mettere in scena il passato per riflettere sul presente: questa è una delle tante funzioni della Settima Arte, in cui, in questa presente epoca della presidenza Trump, sono in molti, in tutto il mondo, a voler realizzare lungometraggi che, in un modo o nell’altro, trattino la questione. E, a dire il vero, all’interno di questa 69° edizione della Berlinale ancora non era capitato di imbattersi in prodotti del genere. Almeno fino al penultimo giorno di festival, in cui è stato presentato Fuori Concorso Marighella, opera prima dell’attore brasiliano Wagner Moura (il Pablo Escobar della serie Netflix Narcos, per chi abbia avuto modo di seguirla), in cui vediamo un ottimo Seu Jorge nel ruolo di Carlos Marighella, l’uomo che, dopo il colpo di stato del 1964 che portò una dittatura al governo brasiliano, radunò un gruppo di uomini, al fine di spodestare i criminali al potere.
Un uomo forte, combattivo, con un grande amore per la famiglia – che, tuttavia, fu costretto ad abbandonare – per un lungometraggio che, partendo dal 1964, fino ad arrivare all’uccisione dello stesso nel 1969, ritrae cinque anni di fuoco della storia del Brasile, mantenendo costantemente ritmi da cardiopalma facendo prendere fiato allo spettatore solo di quando in quando. Il regista, dal canto proprio, pur dovendo gestire un lavoro tanto complesso per quella che è la sua opera prima, ha saputo dimostrare indubbiamente carattere e un buon controllo dei tempi e degli spazi, per un elevato numero di snodi narrativi che reggono bene l’intero lavoro, pur cedendo – cosa, questa, assolutamente rischiosa nel momento in cui ci si rapporta a un prodotto del genere – a qualche elemento retorico di troppo. Ma tant’è.
Al fine di mettere in scena le vicende di Marighella, Moura ha optato per un costante uso di camera a spalla, particolarmente azzeccato nel conferire al tutto un convincente realismo e ancor più indovinato nelle (numerose) scene d’azione, dove durante inseguimenti e sparatorie la (voluta) confusione che viene trasmessa allo spettatore ben rende l’idea delle sensazioni degli stessi personaggi coinvolti.
Un episodio crudo, doloroso, ancora oggi difficile da digerire per il Brasile. Eppure, malgrado ciò, il regista ha optato per un finale speranzoso, in cui – e qui sta la più grande pecca di un lungometraggio come Marighella – vengono lievemente forzati i fatti, lasciando intendere ben diverse sorti per l’intera nazione. A ciò ha contribuito l’inopportuno ed eccessivamente manierista primo piano di una combattente del gruppo di Marighella, che, dopo la decisione di continuare la battaglia, guarda risoluta in macchina, insieme alla decisamente più riuscita scena finale, quando vediamo l’intero gruppo superstite cantare in cerchio l’inno brasiliano, con una macchina da presa che gira vorticosamente intorno ad esso.
Un lungometraggio, questo, dalla durata importante (ben due ore e mezzo), per un risultato straordinariamente mainstream, se si pensa ai canoni di un certo cinema prodotto in Brasile. Eppure, per essere un’opera prima, Marighella convince. Che Wagner Moura abbia scoperto nella regia una sua seconda vocazione?
Marina Pavido