Vampate di vampirismo lesbico
Ci sono almeno due meriti attribuibili, storicamente, al film del carneade iberico Víctor Matellano. Uno, il più importante, è l’aver lasciato comunque un segno nel corso del 36° Fantafestival, facendo sì che il 16 luglio una pattuglia di storici “disturbatori” della manifestazione cinematografica dedicata al fantastico, in primis l’impavido Master Blaster, potessero scaldare la voce in attesa del piatto forte della serata: My Little Sister di Maurizio Del Piccolo, “slasher” italico recitato in inglese talmente trash da sfiorare il sublime.
Ma anche Vampyres del già menzionato Matellano di spunti ne aveva forniti parecchi, per chiunque avesse intenzione di commentare ad alta voce e condividere quei frizzi e lazzi, assolutamente necessari per sopravvivere a una visione del genere, in cui falle clamorose a livello di sceneggiatura, regia e recitazione potevano essere compensate soltanto da una pioggia di sberleffi e risate. Ah, non dimentichiamoci però dell’altro “merito storico”! Pare che Vampyres nasca quale remake di un vecchio “cult”, l’omonimo film diretto da José Ramón Larraz nel 1974. Ma su quest’altra eredità potremmo persino decidere di soprassedere…
In realtà le primissime scene di tale horror ci avevano comunque bendisposto. La piccola orgia di eros e sangue, oltre al film direttamente preso come modello, ci aveva rievocato tutto un immaginario legato alle pellicole del terrore spagnole di quegli anni, quello stesso immaginario di cui il compianto Jesus Franco è stato indiscusso sovrano: le sanguinolente avventure delle sue vampire lesbiche, del resto, hanno fatto epoca.
Ma la fascinazione è rimasta circoscritta lì, nell’illusoria vampata di un incipit in qualche modo “evocativo”. L’evolversi del racconto, invece, non ha fatto altro che dissolvere il ricordo dell’artigianalità di quel cinema, della sua capacità di affrescare atmosfere gotiche e perverse, in un tripudio di banalità. Le soluzioni smaccatamente “gore”, i pur apprezzabili siparietti di eros saffico, hanno continuato ad avvicendarsi regalando qualche effimero piacere, ma non riuscendo mai a conquistare veramente l’attenzione dello spettatore per colpa di uno script a dir poco mediocre, di dialoghi tra umani e vampiri degni della peggior soap opera, dell’utilizzo sbilenco e involontariamente comico dei più triti stereotipi del genere, dello stesso ricorso a interpreti meno espressivi di un rubinetto; per quanto nel mazzo sia finito anche qualche nome abbastanza noto, vedi ad esempio Caroline Munro (Maniac, 007 – La spia che mi amava, Il viaggio fantastico di Sinbad).
Sta di fatto che le procaci vampire, spesso ignude e affamate (sia di sangue che di sesso), sembrano divertirsi un mondo a sedurre e poi sgozzare tizi di passaggio, ma a parte bearsi delle loro forme generose lo spettatore non può certo godere allo stesso modo o empatizzare sul serio con vittime così stolte e imbranate, impegnate in tentativi di fuga credibili quanto la buona fede di Erdogan e per giunta girati male, come dimostrano certe sequenze in cui la gestione degli spazi al posto di generare tensione risulta di volta in volta ridicola o semplicemente illogica. La stessa aura sinistra dei luoghi perde così efficacia. E nel giocare a rimpiattino tra la fatiscente (e pessimamente arredata) dimora, i viottoli di campagna, le tende da camping degli sprovveduti di turno e la (troppo) vicina locanda del paese, l’impressione è che sul set sia stato allestito un parco tematico dell’orrore, più che la remota e tenebrosa residenza di terrificanti creature.
Stefano Coccia