Il capolavoro di Dreyer sonorizzato in sala a Ravenna
Autentica pietra miliare della Storia del Cinema, folgorante crocevia tra l’estetica del muto e una modernità di linguaggio a tratti impressionante, Vampyr è senz’altro tra le opere più note di Carl Theodor Dreyer. Il processo creativo del Maestro danese era cominciato già alla fine del 1929, anno successivo all’uscita de La passione di Giovanna d’Arco, per concretizzarsi poi nel 1932 al termine di un un iter produttivo particolarmente elaborato e complesso, considerando che tale pellicola, girata e montata in Francia, venne portata in un secondo momento a Berlino per la post-sincronizzazione in inglese, francese e tedesco. Quasi inevitabile che il primo film sonoro di Dreyer (per quanto il parlato fosse ridotto a pochi, scarni dialoghi) portasse le stimmate di un periodo di transizione, trasfigurato qua nei canoni di un’opera cinematografica dai tratti tanto raffinati quanto sottilmente perturbanti.
Sta di fatto che in molti paesi il film non ebbe il successo sperato, eufemisticamente parlando, causando così all’autore un forte esaurimento nervoso e un lungo periodo di inattività. Del resto le cronache della settima arte sono costellate di capolavori incompresi. Nel caso di Vampyr ciò può lasciare realmente interdetti, visto che certe sequenze conservano ancora oggi un’impronta così forte, originale, destabilizzante, da generare nello spettatore più sensibile profondi moti empatici e altrettanto vertiginosi picchi di inquietudine.
Tali potenzialità sono state colte perfettamente da Paolo Spaccamonti e Ramon Moro, artefici della sonorizzazione del film con la quale ci siamo confrontati a Ravenna, nel corso del Soundscreen Film Festival 2020. Il loro progetto artistico ha visto la luce in realtà nel 2019, a 130 anni dalla nascita del grande maestro del cinema nordico, ed ha già toccato località come Torino, Pesaro e Tivoli. L’augurio è che ci siano molte altre date ed occasioni di vederli in azione, sia per il valore originario dell’opera, sia per la personalità con cui i due musicisti vi si sono rapportati, operando peraltro su un lungometraggio che aveva già una flebile traccia sonora ma di cui hanno saputo comprendere ed esaltare le vibrazioni sottese a ciascuna inquadratura: tensioni più o meno sotterranee, oscure, per quanto rapportate in più di un frangente all’abbacinante luce del giorno, che il duo ha voluto trasferire in un commento musicale decisamente ardito, ispirato, dove hanno trovato spazio strumenti a fiato e sintetizzatori, bassi ossessivi ed accenni di melodia, le prevedibili sonorità dark poste accanto a passaggi di natura sognante e romantica.
In ciò Spaccamonti e Moro hanno dimostrato d’aver metabolizzato fino in fondo la dimensione così peculiare del capolavoro di Dreyer, plasmato ai margini estremi dell’espressionismo tedesco e dei suoi chiaroscuri, ma con un’inedita cornice diurna a sedimentarne gli orrori laddove il pubblico non era ancora avvezzo a trovarne. Silhouette in controluce, minacciose falci tra i campi, ombre pronte a staccarsi dal colpo e girovagare in pieno giorno per qualche arcano maleficio, soggettive dall’apertura di una bara rivolta direttamente verso il cielo e le fronde degli alberi: un ricettario del genere, reso sullo schermo con irraggiungibile eleganza formale, ha rappresentato senz’altro una palingenesi profonda nell’immaginario dell’epoca.
Ispirato nelle linee guida del racconto alle storie dell’orrore di Sheridan Le Fanu, tra cui The Room in the Dragon Volant e più in particolare Carmilla (laddove l’assoluta rilevanza delle figure femminili è un altro tratto fondante della filmografia di Dreyer), il vampirismo rivisitato dall’autore danese è una traccia di corruzione che la coscienza (a partire da quella emotivamente turbata del protagonista, il giovane viaggiatore Allan Grey) si sforza in tutti i modi di arginare. Fino alla catartasi rappresentata da quell’epilogo, così straniante ed anomalo da restare immancabilmente impresso nella memoria cinefila, in cui il villain di turno incontrava la più assurda delle punizioni, finendo sommerso da coltri di farina di un bianco quasi accecante. Tutto quel bianco, a ricoprire gli abissi più oscuri dell’animo umano.
Stefano Coccia