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Vae Victis

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VOTO: 8

Sindrome di Stendhal – Advanced Level

All’ultimo Festival Internazionale del Cinema di Salerno il livello della sezione lungometraggi è stato, a quanto pare, piuttosto alto, nonché foriero di proposte cinematografiche assai diversificate tra loro. Per esempio abbiamo già avuto modo di occuparci del western, su queste pagine, grazie a Oltre il confine di Emiliano Ferrera, che in Campania ha peraltro ottenuto una lusinghiera MENZIONE DI MERITO.
Con Vae Victis di Luca Alessandro si cambia decisamente orizzonte. L’autore in questione ci era già noto per documentari dall’impronta molto personale ed empatica come Mindsurf. Ci ha quindi un po’ sorpreso veder inserito il suo nuovo lavoro a Salerno tra le opere di finzione… ma in effetti Vae Victis travalica le tradizionali distinzioni formali e di genere in modo alquanto innovativo, mescolando tra loro tracce che possono rimandare di volta in volta al noir, al documentario d’arte, al videoclip / film musicale, alla classica biografia cinematografica affrontata però secondo un’ottica straniante e lisergica. Ecco, chi lo ha definito un “biopic noir” o un “biopic horror” non è andato troppo lontano dal vero.

Al centro della scena vi è comunque l’esperienza artistica di un personaggio “circumnavigato” nella sua ispirazione da ogni angolazione possibile: Valerio De Filippis. Originario di Pozzuoli ma residente a Roma da anni, influenzato in profondità da un passato sofferto, livido, violento, persino tragico se si considerano le circostanze che portarono alla scomparsa dell’amata sorella, costui è artefice di performance e di opere dal mood indubbiamente perverso, morboso, tendente all’incubo.
Il film di Luca Alessandro rende omaggio alla sua arte drammatizzandone l’essenza attraverso una notevole libertà stilistica, tale da alternare la descrizione delle opere, della loro genesi tormentata, a brevi ed apodittici segmenti di fiction, i cui contorni risultano sovente assai macabri, “dark”, claustrofobici, tenebrosi.
La sensibilità dell’artista si rivela così quasi fosse la messa in scena di un crimine. Il che potrebbe spingerci persino a citare quel magnifico, non sempre compreso “concept album” di David Bowie datato 1995, “1.Outside”; ma qui una colonna sonora “autoctona” c’è e sono le ossessive canzoni firmate da Blokulla a troneggiarvi più che degnamente: magnetiche, lugubri, oscure.
L’ordito labirintico del lungometraggio si nutre pertanto di continue, sorprendenti epifanie, che vanno da ammaccate testuggini a qualche grandguignolesco “tableaux vivant”; una fitta trama, cui contribuiscono inoltre testimoni dell’opera di De Filippis particolarmente qualificati, come i critici d’arte e i docenti universitari coinvolti nelle riprese, laddove gli accenni di drammatizzazione del racconto beneficiano invece di interpreti decisamente in parte come Dario Almerighi (l’artista da giovane), Marco Marchese (prete e “storyteller” d’eccezione) o la bellissima Claire Palazzo (estemporanea Musa dello stesso Valerio). Così, tra un richiamo al torbido thriller Seven di David Fincher e una citazione di Stendhal, tra Il giovane holden coi suoi dilemmi esistenziali e l’incontro con un attempato artista di strada, l’oscurità di Vae Victis permea la scena di un’atmosfera nera ma vivida.

Stefano Coccia

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