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Il mestiere di vivere

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VOTO: 7,5

Semplicemente Pavese: non fate troppi pettegolezzi

Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé, quella che si è superata, un antico se stesso. Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi. Chi non ha grandi ripugnanze non combatte
Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”

La nostra disamina dell’attento, puntuale, dotto e comunque amorevole documentario realizzato da Giovanna Gagliardo può tranquillamente cominciare da una breve nota a margine: ci piace questa tendenza, se ci è consentito definirla così, abbracciata di recente da non pochi cineasti di casa nostra, ovvero approfondire biografia e opere di importanti figure della letteratura italiana. All’ultima Festa del Cinema di Roma ci si era entusiasmati ad esempio per Italo Calvino nelle città, validissimo ritratto dello scrittore proposto da Davide Ferrario. Con Il mestiere di vivere si passa ovviamente a Pavese. Reduce da una positiva accoglienza alla 42a edizione del Torino Film Festival, il vibrante documentario di Giovanna Gagliardo ha cominciato il suo tour attraverso la penisola lunedì 13 gennaio, al Cinema Farnese di Roma, con la regista presente in sala.
Proprio in una delle tante risposte centrate, condivisibili, che lei ha saputo dare al pubblico, si trova riscontro di quell’approccio al versante privato del personaggio, da annoverare senz’altro tra i punti di forza del film. Uno degli spettatori le ha infatti voluto chiedere perché abbia glissato con tanto pudore sul suicidio del grande letterato piemontese. In effetti compare giusto, verso la fine, una copia del celebre messaggio d’addio vergato a mano: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. La regista ha motivato questa sua scelta di campo con la volontà di mettere in evidenza la vita, la multiforme creatività dello scrittore, non le ben note circostanze della morte, che agli occhi di alcuni tendono purtroppo ad assumere una connotazione totalizzante. Evitando così i tanto vituperati “pettegolezzi”. Da parte nostra, non possiamo che sentirci in armonia con tale decisione.

Il mestiere di vivere pone invece sotto i riflettori la personalità dell’autore a partire dalla sua formazione, dalle innumerevoli opere pubblicate nonostante la sua vita si sia fermata ad appena quarantadue anni. Pubblicazioni importanti non solo nelle vesti di autore, ma anche di traduttore, giacché si tende a volte a mettere (erroneamente) in secondo piano le traduzioni dall’inglese accurate e ricche di intuizioni che Pavese portò avanti, negli anni, facendo conoscere meglio al pubblico italiano gente con Whitman o Steinbeck. Senza contare il lavoro davvero monumentale svolto per Moby Dick di Herman Melville.
Una simile attività lo portò infatti a essere direttore editoriale di punta per Einaudi, ruolo che all’interno della casa editrice lo spingeva spesso e volentieri a scontrarsi (talora più aspramente, talora facendo esercizio di ironia) con altri intellettuali di peso allineati acriticamente al PCI, partito cui anch’egli si era iscritto ma senza condividere il dogmatismo di coloro che gli rimproveravano, ad esempio, di voler pubblicare a tutti i costi libri finiti tristemente sotto attacco in quanto firmati da autori estranei all’establishment culturale di sinistra, come Mircea Eliade o Ernesto De Martino. L’aneddotica che si sviluppa ne Il mestiere di vivere è del resto ricca e tocca un po’ tutta la cerchia torinese che ruotava, per l’appunto, intorno a Giulio Einaudi. Attraverso interviste dell’epoca e altri filmati di repertorio riemergono dalle nebbie del tempo autentici giganti come Norberto Bobbio, Elio Vittorini, Italo Calvino, Natalia Ginzburg, Leone Ginzburg. Ma Giovanna Gagliardo, efficacemente sostenuta dalla Fondazione Cesare Pavese di Santo Stefano Belbo, si è dimostrata poi abile sia nel ricostruire tale cornice ambientale che nel cogliere l’assoluta modernità di Pavese, nel proiettarlo verso il presente pure attraverso riprese effettuate in luoghi a lui cari. Le donne, il vino, gli incontri con altri letterati illustri in qualche caffè, sembrano così rivivere sullo schermo (anche grazie alle dichiarazioni di “contemporanei” ben informati come Steve Della Casa) restituendoci il ritratto di un uomo di cultura a 360°, dai tratti ora energici e ora più delicati, che coi suoi romanzi e con gli altri riflessi di una instancabile attività editoriale ha saputo lasciare un segno inconfondibile, duraturo, nella letteratura italiana del Novecento.

Stefano Coccia

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